Oggi il calendario dice che sono settantotto gli anni che l’Italia ha vissuto nella libertà e nella democrazia; che sono settantotto anche gli anni che io e tanti altri nati nel “Quarantacinque” (scritto con l’iniziale maiuscola perché a nessuno venga permesso di dire che quello è stato un anno qualunque e non, invece, il sublime anno in cui il vento della libertà e della democrazia poté soffiare senza temere d’essere soffocato) godiamo di quella libertà e di quella democrazia conquistata dai nostri padri e nonni con immani sacrifici. Basterebbe aver coscienza di questo per dire che questo è un giorno benedetto, irrinunciabile, sacro e amato. Invece, c’è ancora chi lo ritiene un sopruso: quasi che i morti per la libertà e la democrazia non siano mai esistiti; come se partigiani, ribelli per amore, fiamme verdi e chiunque si era opposto alla tirannide fossero sconosciuti abitanti dell’isola di Utopia e non abitanti delle città, delle pianure, delle valli e delle montagne italiane; come se la Costituzione scritta per dare senso e compiutezza alla conquista della libertà e della democrazia sancita in quel 25 aprile 1945, fosse carta straccia e non la “Carta” fondamentale dei diritti e dei doveri degli italiani. “In questa Costituzione – disse Piero Calamandrei agli studenti – c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie… E se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione – aggiunse -, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Eppure c’è ancora adesso chi al giorno della liberazione preferisce il giorno della negazione. E il negazionismo, strisciante o palese, è un terribile cancro che s’insinua tra le pieghe della storia per distruggere ogni ragione, offendere la verità, mortificare la memoria di coloro che la vita l’hanno sacrificata perché ad altri fosse permesso di vivere camminando a testa alta nel mondo. uando chiesi a papà Gino di rfaccontarmi gli anni attorno a quello in cui ero nato, mi disse cheQ
Quando chiesi a papà Gino di raccontarmi gli anni vissuti attorno a quello in cui ero nato, mi disse che non c’era niente da ricordare. Mamma Maria, invece, mi raccontò il suo pellegrinaggio “fino allo stradone per vedere passare i carri armati dei tedeschi finalmente rimandati al loro paese d’origine” e poi le miserie sopportate in attesa che il vento della libertà e della democrazia prendesse vigore e portasse tra le case e le vie speranze e vita nuove. Mi disse anche che “le notti piene di pianto non finivano mai”, soprattutto perché dentro ogni notte c’erano “i pensieri che rimandavano a chi dalla guerra non era tornato” e c’era la gente vestita di stracci, affamata e dolente, che se ne stava in silenzio a guardare scorrere il tempo sperando che alla fine lasciasse il posto a un’alba radiosa. Non mi stupiva la gente vestita di stracci, ma il suo silenzio. Allora, cercando una risposta a così forti, giustificati ma pur sempre fastidiosi silenzi, leggendo storia e storie di persone scritte e raccolte in un piccolo quaderno da uno sconosciuto autore, mi parve di capire che “forse non era a dispetto del suo silenzio che quella gente diventava importante, ma a causa di esso, perché niente di ciò che viene pronunciato appare tanto carico di minaccia quanto il non pronunciato”. Quelle righe dicevano a me e ai tanti che con me cercavano libertà e democrazia con cui vivere e sperare, di andare incontro alla gente senza aspettare inviti, avendo certezza che solo mettendosi in ascolto sarebbe stato possibile comprendere il valore del silenzio che l’accompagnava.
Sono passati settantotto anni, anni gloriosi difficili duri, spesso inquieti, ma sempre incorniciati dentro la libertà ritrovata. Dopo così tanti anni, che cosa resta adesso da ricordare e che cosa resta ancora da dire? Il vecchio partigiano incontrato sui monti dove andava a cercare le sue radici, a me e ai tanti riuniti per fare memoria disse: “Ricordate le voci di coloro che la voce l’hanno usata per conquistare la libertà; dite ai vostri figli e nipoti che nessun uomo è escluso dalla città in cui abita la libertà”.
Cesare Trebeschi, andato avanti il 10 aprile del 2020 quando il calendario celebrava il Venerdì Santo, testimone della politica che si fa servizio e dell’impegno che scavalca ogni personale interesse, scrivendo di “quando la vergogna di un’Italia umiliata diventa impavido coraggio contro l’occupante nazista” e ricordando la “miope posizione ostinatamente difensiva di tanta cattolicità”, ripropose con forza ciò che suo padre Andrea, “fiamma verde” convinto e resistente coraggioso fino alla morte (venne trucidato nel campo di sterminio di Gusen nel gennaio del 1945), aveva sempre proposto e difeso: innanzitutto, che “i cristiani hanno poco da difendere, qualcosa, piuttosto, da proporre: libertà, giustizia, solidarietà, la dignità di ogni persona senza discriminazioni”; poi, un “appello al fratello più povero” (completamento di quanto il suo amico Giorgio La Pira aveva scritto, circondandolo di speranza di buon futuro, in un “appello al fratello più ricco”), perché, diceva “non c’è povero che non possa dare una mano a qualcuno più povero di lui”, mentre “il ricco ha sempre qualcuno più ricco o più fortunato da rincorrere ansiosamente”.
Andrea Trebeschi, il papà di Cesare, ascoltando padre Carlo Manziana (dell’Oratorio della Pace, cresciuto al fianco di monsignor Giovanni Battista Montini, di padre Giulio Bevilacqua, Emy Rinaldini, Teresio Olivelli e altri sconosciuti ma eroi e cercatori di libertà e democrazia) che gli mandava a dire “non puoi fermarti lassù tra i monti, in città i giovani si stanno organizzando, ma non c’è nessun vecchio che li coordini con la necessaria prudenza e razionalità…”, si mise al loro fianco e per questo venne arrestato, deportato e trucidato. Nelle righe finali di quel testo scritto dal figlio Cesare e ricordando “il dolore, la vergogna, il coraggio” di quei giorni, si legge: “Lui non è tornato: è rimasto lì nella cenere, ad aspettare che uno a uno figli, nipoti, pronipoti, amici vecchi e nuovi, in un giorno importante vengano a comprendere che la dignità dell’uomo vale per quello che costa, e non è vera fino a quando non è di tutti gli uomini; a comprendere che per conquistarla e difenderla ci sovrastano a volte uomini e ore terrificanti: difficile non avere paura, ma la vergogna può nutrire il coraggio”.
Sono passati settantotto anni e noi che siamo nati attorno e dentro quel 25 Aprile 1945, ma anche chiunque abbia respirato insieme a noi libertà e democrazia conquistate, dovrebbe ripartire dal “coraggio della parola” con cui gli uomini della Resistenza si opposero alla dittatura permettendo all’Italia e agli italiani “a non avere vergogna di darsi la mano tra diversi, ad avere paura della paura del salto nel buio, a temere piuttosto di non afferrare il momento magico della vita e della risurrezione”. Se ciò s’avverasse, allora la Festa restituirà a ciascuno il piacere e il diritto di essere “popolo italiano”.
Oggi, sulle piazze in cui si canta e si celebra la Liberazione, mi piacerebbe incontrare qualcuno che in silenzio regali a chiunque gli passa accanto un fiore, anche solo una margherita, i cui petali siano capaci di parlare per dire: “Ecco, vi porto libertà e democrazia: fatene buon uso”. Allora sarebbe un bel 25 Aprile.
LUCIANO COSTA