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A chi giova una nuova guerra?

Difficile dire se sia una piccola disputa tra Kosovo e Serbia, due piccoli stati; più facile è collocarla dentro un quadro che chiama in causa ancora una volta, le grandi potenze: da una parte gli Usa e l’Europa Unita, dall’altra Russia e Cina, entrambe con visioni diverse e con prospettive diverse. Tutto incominciò con una disputa fratricida. Finiva il secondo millennio, me quella guerra non lasciava intravedere nulla di buono. Il Kosovo chiedeva spazio, visibilità e il riconoscimento di Stato sovrano; la Serbia non accettava neppure una delle richieste avanzate. Allora, intorno a Kosovo e Serbia la Nato usò le maniere forti ma senza giungere a una risoluzione definitiva e accettata. Si trattava infatti di riconoscere l’indipendenza del Kosovo togliendo alla Serbia parte della sua sovranità. Quella che la storia ricorda come “guerra del Kosovo” venne combattuta dal febbraio 1998 all’11 giugno 1999. Il conflitto aveva come suo centro la definizione dello status del Kosovo, allora appartenente alla Repubblica Federale di Jugoslavia ovvero la Serbia. Ci furono migliaia di vittime innocenti e si susseguirono bombardamenti: tutto sotto lo sguardo delle grandi potenze, più interessate alla strategia che alla pace. Quando cessarono le ostilità, al centro dell’interesse si collocò lo status da assegnare al Kosovo. Ma la Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, proclamata unilateralmente nel 2008, dopo che nel 1999 la risoluzione 1244 dell’Onu autorizzava una presenza internazionale civile e militare in Kosovo, la Kfor a guida Nato ed ora forte di 3.500 uomini.

L’indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta da 113 dei 193 membri Onu tra cui la maggior parte dei Paesi Ue, mentre Russia e Cina, alleate della Serbia, no. Negli anni passati Bruxelles ha cercato di mediare un dialogo tra i due vicini, ma finora gli sforzi non sono riusciti a raggiungere una normalizzazione dei rapporti. Il premier kosovaro Kurti ha affermato che il Kosovo presenterà formalmente domanda per diventare membro dei Ventisette entro la fine del 2022, nonostante le preoccupazioni per le tensioni con la Serbia, anch’essa aspirante membro Ue. Ma è sulla Nato che la spaccatura fra Mosca e l’Occidente si riverbera pericolosamente nei Balcani. Kurti ha infatti lanciato un appello per essere ammesso nella Nato insieme alla Bosnia. Una richiesta avanzata in maggio chiaramente in chiave anti-serba, mentre la crisi in Ucraina era già in atto.

Così la guerra dei Balcani, come un fiume carsico, riemerge dopo oltre un decennio e riapre vecchie incomprensioni tra Russia e Occidente in quello che potrebbe diventare un “fronte parallelo” rispetto alla guerra in Ucraina. La nuova crisi tra Kosovo e Serbia è iniziata domenica pomeriggio quando la popolazione serba del Kosovo aveva bloccato le strade che conducono ai valichi di confine di Jarinje e Bernjak, obbligando le autorità a chiuderli. Le proteste sono contro nuove leggi sui documenti di identità e targhe automobilistiche, che avrebbero dovuto entrare in vigore il primo agosto. I manifestanti protestavano contro la decisione di Pristina di imporre anche ai serbi che vivono in Kosovo l’uso esclusivo di carte d’identità e targhe kosovare.

Dalla guerra del 1999, il Kosovo aveva tollerato l’uso di targhe emesse dalle istituzioni serbe in quattro municipalità del nord del Paese dove sono presenti maggioranze serbe. La nuova legge rende invece obbligatorio l’uso di targhe con l’acronimo «Rks», cioè Repubblica del Kosovo. Ai proprietari di automobili era dato tempo fino alla fine di settembre per effettuare il cambiamento. Le nuove norme prevedono anche che chiunque entri in Kosovo con una carta d’identità serba abbia un documento temporaneo, con validità di tre mesi, mentre si trova nel Paese. Il premier del Kosovo, Albin Kurti, ha spiegato che si tratta di una misura di reciprocità, in quanto la Serbia – che non riconosce l’indipendenza della sua ex provincia a maggioranza albanese proclamata nel 2008 – chiede lo stesso ai kosovari che entrano nel suo territorio. La diatriba su targhe e documenti, che aveva già provocato in passato delle rimostranze, ha così riacutizzato sopite tensioni internazionali. La Serbia, spalleggiata da Russia e Cina, non riconosce l’indipendenza del Kosovo, né il suo diritto di imporre regole e regolamenti come la registrazione di automobili e camion mentre il governo del Kosovo è riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi Ue.

Così domenica notte era giunto il minaccioso monito del Cremlino: «Tutti i diritti dei serbi in Kosovo devono essere rispettati», aveva dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. Poi, dopo consultazioni ripetute lo stesso Peskov, dopo aver ribadito di sostenere «assolutamente» la posizione della Serbia, chiedeva che tutte le parti «agiscano in modo ragionevole» perché riteneva «assolutamente infondati» le richieste delle autorità del Kosovo. Mentre la rappresentante dell’Onu in Kosovo, Caroline Ziadeh, lanciava un appello «alla calma, al ripristino della libertà di movimento» dall’Ue giungeva un chiaro altolà a Belgrado chiedendo di evitare «ogni azione non coordinata e unilaterale che mette in discussione la stabilità e la sicurezza». L’Ue ha poi invitato le autorità serbe e quelle kosovare a Bruxelles per risolvere i contrasti.

Kosovo e Serbia stanno a un tiro di schioppo dall’Italia. Come allora l’Italia è chiamata a svolgere un ruolo determinante per salvaguardare la pace. Stante la crisi, potrà comunque farlo? La speranza è che ci riesca. Di guerre ne abbiamo piene le tasche. Basta! Adesso è tempo di mettere al centro la pace. E anche di giudicare i pretendenti alla vittoria nelle prossime elezioni sulla loro capacità di costruire pace e concordia tra i popoli. Per adesso, purtroppo, gli unici interessi riguardano le alleanze: centro-destra contro centro-sinistra. Tutto il resto si vedrà.

LUCIANO COSTA

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