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Alla ricerca della città perduta…

In attesa di analisi e bilanci sull’essere, l’essere stato e il divenire della città – questa o qualunque altra – è altamente istruttivo muoversi alla ricerca di ciò che c’è e si vede. Basta camminare in su e in giù oppure di qua e di là, ed ecco che nell’alternarsi dei panorami, oggi resi deserti dalla pandemia e dai conseguenti divieti, emergono geografie dimenticate: dove c’era una officina adesso vedo un palazzo; dove apriva la bottega del salumiere solo una serranda abbassata; dove sostava l’invitante trattoria una serie di cartelli che rimandano, se ci sarà il tempo e la voglia, a tempi migliori… Cammino senza una meta, però con un perché preciso. Vorrei insomma scoprire se e come la città è cambiata. E lo faccio sommando un passo dopo l’altro. Nulla di stupefacente. Infatti, normale è camminare in città (lo facciamo tutti i giorni: chi per dovere d’ufficio, chi per svago, chi per curiosità o per occupare il suo tempo libero); straordinario, invece, sarebbe camminare in una città rispettosa dei diritti di tutti i suoi abitanti Normale e straordinario, se appena si volesse, potrebbero fondere le rispettive peculiarità rivestendo i singoli diritti ii comportamenti virtuosi, tali da consentire all’intero apparato circolatorio di sentirsi appagato perché soddisfatto dello spazio e delle possibilità a lui riservati. In linguaggio corrente, obbligato della pandemia che ci opprime, è questione di distanziamento e di uso corretto delle mascherine; in realtà si tratta di vivere cercando di far vivere la città chi ci sta intorno.  

Il termine “città”, infatti, nella moderna concezione, non si limita ad inquadrare un determinato territorio, bensì un più vasto agglomerato umano, quella “città dell’uomo” che, secondo alcuni, dovrebbe essere la naturale e giusta identificazione (ma anche integrazione) di aspirazioni ed interessi diversi.

Se l’antica civitas era considerata “un insediamento umano di notevoli dimensioni nel quale si concentrano le funzioni economiche, politico-amministrative, culturali, proprie di ogni organizzazione sociale evoluta”, la moderna città, con la sua specifica funzione di capoluogo, tende ad essere un concentrato di servizi obbligatori e, quindi, affollatissimi attorno ai quali si dirada e a volte si annulla la sua funzione essenziale, che era ed è quella della residenza. Però, a meno che la città in cui abitiamo non sia una di quelle “città giardino” teorizzate e assai raramente concretizzate all’inizio del secolo dall’architetto inglese Ebenezer Howard (per il quale l’ideale era una città fondata su bassa densità edilizia, sulla proprietà indivisa del suolo, sulla popolazione contenuta, sulla gestione comunitaria dei servizi sociali e sull’integrazione fra attività agricole e industriali), i conti si devono fare con tutto ciò che è stato messo a disposizione dell’uomo dal progresso e dalla tecnica.

Così, anche il mio “camminare in città” non corrisponde alla semplice enunciazione di un desiderio, ma diventa il risultato di una serie di fattori collocati ognuno al suo giusto posto. Mi amareggia, ad esempio, vedere quartieri e zone che ieri erano considerate semplicemente popolari, siano adesso frettolosamente definiti difficili per il semplice fatto che i suoi abitanti hanno usi, costumi e colore della pelle diversi da quelli cosiddetti nostrani.

Qualche anno fa la rivista “Città e dintorni” fotografava così la nostra città: “Brescia sta diventando una città brutta. Periferie anonime, spazi degradati, brutture edilizie, disordine ed incuria. C’è una sorta di malessere che spesso obbliga inconsapevolmente a distogliere lo sguardo dal finestrino dell’automobile o del bus. Chi ci vive sembra purtroppo rassegnato. Un amico mi ha raccontato di aver visto un signore col cane leggere il giornale nell’aiola spartitraffico. Camminare o andare in bicicletta è un piacere dimenticato. Per molto tempo la distruzione del bello, il saccheggio dei beni di testimonianza storica, l’impoverimento estetico dei luoghi sono stati considerati mali necessari, prezzi da pagare per lo sviluppo, per il progresso, per l’economia del benessere. Interventi impropri (pubblici e privati) hanno logorato fisionomie urbane e paesaggi rurali devastando sistematicamente molte delle testimonianze che nella loro stratificazione e molteplicità riassumono a Brescia l’identità contemporanea della città…”.

Quale sia oggi l’identità della città non lo so e forse tanti come me non lo sanno. Di sicuro è una città più amata all’esterno che all’interno, considerata all’avanguardia più da fuori che da dentro, ritenuta di cultura e arte a Parigi, Monaco e New York ma non sempre a Milano o a Roma, apprezzata per la serietà della politica esercitata più dagli inviati speciali di passaggio che dai quotidiani e dai media che qui trovano stampa e diffusione…

Anche per questo il rinoceronte appeso, addirittura sospeso, nello spazio aperto del Quadriportico – luogo di transito dalla squadrata piazza Vittoria alla aggraziata sagoma dei vecchi portici – è stato inteso come provocazione arbitraria (che ci fa un rinoceronte, per di più senza ali, messo tra cielo e terra…) piuttosto che come auspicio benaugurante (ci si può librare in cielo quale sia la zavorra che ci condiziona…).

In ogni caso, ho visto in giro tanto bello, poco brutto, assai insignificante, moltissimo discutibile, troppo banale. Non ho visto musei e teatri (chiusi per obbligato-prolungato-nefasto turno di riposo), chiese, santuari e santelle (chiusi o solo parzialmente visitabili da devoti con autocertificazione a portata di mano) e neppure turisti indaffarati a decifrare dipinti, sculture e architetture (tenuti lontani dalla mancanza minima di posti in cui sostare). In compenso ho visto giardini e parchi pronti a sbocciare… Poi, anche il sindaco Emilio Del Bono e alcuni suoi assessori godere i fiocchi di neve che tentavano ieri di imbiancare la Loggia e i dintorni…

In attesa di tempi migliori, basta e avanza.

LUCIANO COSTA

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