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Ambiziose riforme ed evidenti dimenticanze

Che dire delle proposte di legge approvate dal Consiglio dei Ministri a proposito di riforma fiscale, ponte sullo stretto, autonomie regionali differenziate e altro ma non ancora pensioni, scuola, sanità, assistenza? Che sono proposte, progetti magari anche ambiziosi, ma forse messi in circolo per far valere i muscoli guadagnati in campagna elettorale. Chi vivrà, vedrà. Perché, se vale quel che il passato ha insegnato, sempre che tutto vada bene, ci vorranno anni e anni per passare dalle parole ai fatti. Nel frattempo, i conti son da fare con il reale che scorre sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Non è il caso di riassumere il tanto che viene raccontato da giornali e televisioni, sarebbe però il caso di non lasciar scorrere il giorno senza rendersi conto che se il mondo piange, l’Italia non ride.

Non ride l’Italia della sanità, che secondo Silvio Garattini, illustre esperto e ricercatore di fama internazionale, può certo vantarsi di annoverare siti invidiati, ma anche di dolersi assai di tanti disservizi e ritardi ingiustificati. Siti medicalmente appetibili, per chi ha la necessità di sottoporsi ad un intervento chirurgico o ad una prestazione specialistica, e ne ha le possibilità, sono locati principalmente in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (le regioni che risultano anche ai primi posti nei punteggi sui Livelli essenziali di assistenza), con una leggera prevalenza per le strutture private. È quanto emerge da un report della Fondazione Gimbe sulla migrazione sanitaria, che, nel 2020, ha raggiunto un valore di 3,33 miliardi di euro. Guardando al saldo tra mobilità attiva (attrazione di pazienti da altre regioni) e quella passiva (migrazione sanitaria dalla regione di residenza verso altre), il rapporto spiega che “Emilia Romagna, Lombardia e Veneto – tutte e tre capofila nella trattativa per ottenere l’autonomia differenziata – raccolgono il 94,1% del saldo attivo, mentre l’83,4% del saldo passivo si concentra in Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata”. Le tre regioni del Nord raccolgono, insieme, quasi la metà della mobilità attiva: Lombardia (20%), Emilia-Romagna (16,5%) e Veneto (13%). Una ulteriore fetta, quasi il 21%, viene attratto dalla triade Lazio (8%), Piemonte (7%) e Toscana (5%). Quanto alla mobilità passiva, tre regioni con maggiore indice di fuga generano debiti per oltre 300 milioni di euro: in testa Lazio (14%), paradossalmente la stessa Lombardia (11%) e Campania (10%), mentre mancano i dati sulla Calabria. Complessivamente, l’85,8% degli spostamenti per cure riguarda ricoveri ordinari e in day hospital (69%), seguiti dalle prestazioni di specialistica ambulatoriale (16%). In particolare, più della metà del valore della mobilità sanitaria è erogata da strutture private, per un totale di 1.422 milioni (53%), rispetto ai 1.279 milioni (47%) delle strutture pubbliche.

Uno dei più vistosi mali che affliggono la sanità italiana è quello dei medici e infermieri che mancano o che fuggano altrove. Garattini dice che negli ultimi vent’anni ne abbiamo perso circa 180mila. “Sono professionisti – ha scritto l’esperto – che si sono trasferiti in vari Paesi europei, prevalentemente nel Regno Unito, soprattutto nel triennio 2019-2021 con una fuga di oltre 17.000 infermieri e 21.000 medici e con una perdita di circa 3,5 miliardi di euro, che rappresenta l’investimento dello Stato per la loro formazione. Le ragioni sono prevalentemente dovute alle condizioni di lavoro, con particolare riferimento a un miglior salario. È inutile farci illusioni – aggiunge Garantini, le perdite di personale continueranno, sia perché c’è una riduzione della popolazione giovanile sia perché abbiamo un’età media elevata. e quindi avremo un ulteriore sbilanciamento fra i pensionamenti e le nuove leve”.

Va però anche peggio fuori da ospedali e cliniche. È infatti evidente la tendenza da parte dei medici a disertare i Comuni agricoli per “migrare” nelle zone urbane dove è più facile integrare le entrate pubbliche. Secondo l’esperto “ci sono purtroppo centinaia di piccoli Comuni che non hanno più un medico. È illusorio pensare che sia sufficiente far lievitare le quote di studenti fissate dall’attuale numero chiuso per le ammissioni alle Scuole di medicina delle Università, perché gli studenti sono già troppi ed è piuttosto necessario aumentare le capacità formative delle Scuole di medicina se vogliamo avere medici e infermieri in regola con gli sviluppi delle conoscenze mediche. Di fronte a questa situazione è molto strana la tendenza emersa in Parlamento a pensare che si possa mantenere l’attuale sistema dei medici di medicina generale e contemporaneamente un migliaio di Case di Comunità e 400 Ospedali di Comunità. Infatti, dove si trova il personale se manca già oggi per le strutture esistenti? I medici di medicina generale dovrebbero, invece, aumentare la loro produttività a favore del Servizio sanitario nazionale nella posizione di dipendenti, facendo parte delle Case di Comunità con la possibilità, lavorando insieme, di tenere aperti gli ambulatori sette giorni alla settimana ed evitando così gli affollamenti al Pronto Soccorso che impediscono le funzioni fondamentali di questo servizio rivolto alle gravi urgenze. Gli oppositori del progetto arrivano perfino a invocare il diritto dei cittadini a scegliere il medico di propria fiducia”.

E poi, “chi ha deciso che le Case di Comunità non lo consentano? Semmai nelle Case di Comunità si avrà il vantaggio di trovare comunque un medico anche quando il proprio medico di fiducia sia assente. Se vogliamo che il Servizio sanitario nazionale sia sostenibile ed efficiente occorre affrontare il problema con grande urgenza orientandosi verso una serie di decisioni”. Per esempio, ma è solo per esempio, che poi le decisioni dovranno passare dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento: aumentare le Scuole di medicina per poter accrescere il numero degli studenti; incrementare gli stipendi dei sanitari ospedalieri per poter eliminare le attuali diseguaglianze – in contrasto con la Costituzione – per cui chi ha soldi, attraverso l’intramoenia, può avere servizi rapidi mentre per chi è povero entrano in gioco le lunghe liste d’attesa; costituire gradualmente le Case della Comunità con servizi socio-sanitari e l’aiuto del volontariato (secondo Garattini “le Case della Comunità devono includere, come dipendenti, i medici di medicina generale in aggiunta a infermieri, il pediatra di famiglia, psicoterapisti e fisioterapisti con una segreteria informatizzata e servizi di telemedicina, nonché la partecipazione dei servizi sociali e del volontariato”); non realizzare gli Ospedali di Comunità, abolire i piccoli ospedali e concentrare il personale negli ospedali con adeguate strutture per aumentare la produttività di medici, infermieri e altri professionisti sanitari…

Poi, poi si vedrà. Però, come faranno i soliti lontani, abitanti di paesi e frazioni lontani dai centri ospedalieri e assistenziali, a godere dei servizi previsti per tutti ma a disposizione di tanti ma non di tutti? Un vecchio amico medico, andato avanti troppo presto, mi spiegava che un buon medico della mutua, di famiglia, di paese insomma, era il rimedio primo e insostituibile agli affollamenti di ospedali, relativi pronto soccorso e laboratori di analisi. “aiutiamo i malati, prima a casa e poi, se necessario, in ospedale”, concludeva il mio amico medico. Aveva ragione. Ma adesso, chi ci governa ed è chiamato a fare leggi e riforme, lo sa o non lo sa?

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