Due notizie: una per dire che le guerre smuovono miliardi di dollari, affari e interessi mostruosi, appetiti mai sopiti; l’altra per sottolineare come con in tasca una laurea un giovane (nel caso che racconteremo una ragazza), se vuole lavorare accetta anche di fare lo spazzino. Non c’è correlazione apparente tra le due notizie, però entrambe possiedono una morale amara: basta vendere armi per arricchire; una laurea che abilita a chissà quali alte mansioni diventa carta straccia quando il bisogno di lavorare per vivere non accetta rinvii e attese.
RICCHEZZE GENERATE DALLE GUERRE – Cinquecento miliardi di dollari è il fatturato realizzato l’anno scorso dai cento colossi principali dell’armamento mondiale (lo dice l’ultimo rapporto dell’autorevole Istituto per la Pace, che ha sede in Svezia). In 365 giorni, l’incremento sfiora il 2%. E i dati avrebbero potuto essere ancora più opulenti se non avessero risentito degli ultimi strascichi della pandemia, che ha azzoppato scambi e logistica, impedendo la maggior parte delle fiere internazionali di morte, cenacolo di nuovi affari. È come se i colossi delle armi non conoscessero la parola crisi. I loro guadagni crescono ininterrottamente da sette anni a questa parte. Equivalgono alla ricchezza nazionale che un Paese prospero come il Belgio riesce a mettere su in un anno. E il futuro si annuncia altrettanto roseo, perché la guerra in Ucraina sta gonfiando i bilanci militari in tutta Europa.
La sola Germania ha sbloccato 75 miliardi di euro per comprare nuove armi. Italia, Francia, Polonia, Belgio, Olanda e Paesi Baltici hanno in animo di rinverdire tutto il parco terrestre, aereo e navale. Una manna per i mercanti: diversamente dalle altre industrie (52,6%), le loro aziende vivono di commercio (80,4%). Alimentano i traffici internazionali di armi, che sono spesso una partita di giro, benefica anche per la bilancia dei pagamenti degli Stati in cui operano. La nostra Leonardo, cresciuta del 15% in un anno, è controllata al 30,2% dal governo italiano. È il dodicesimo gruppo mondiale del settore armiero: le sue ricchezze dipendono per l’83% dai contratti bellici. Nella vicina Francia, il discorso è identico: lo stato possiede l’11% di Airbus, il 18% di Safran, il 34,9% di Thales, il 62,3% di Naval Group, il 50,38% di TechicAtome e due seggi su sette nel comitato di sorveglianza di Knds, tutte aziende che hanno potenziato i ricavi l’anno scorso (15%).
Complice la guerra, il clima si sta deteriorando mentre gli affari armati godono ottima salute. La Banca europea per gli investimenti ha allentato le maglie. Dal 2017, consente finanziamenti di tecnologie duali, valevoli per il mondo civile ma integrabili nei sistemi d’arma. Perfino il Pnrr è ambiguo: non vieta a priori di dirottare risorse sugli investimenti militari. Però, nel pubblicare il suo rapporto annuale, l’Istituto per gli studi sulla pace di Stoccolma si mostra insolitamente prudente. Preconizza difficoltà venture per i giganti delle armi, per due motivi: la crisi dei semiconduttori e l’embargo sulla Russia, da sempre fornitore chiave di titanio, perno dell’industria aerospaziale. Ma non tutti concordano. La Lockheed, numero uno mondiale delle armi, si mostra spavalda: incassata una crescita del 2% quest’anno, prevede una progressione geometrica dei ricavi da qui al 2026. (Se interesse, la Lockheed guida il gruppo che produce gli F-35 e i lanciarazzi Himars e la guerra ucraina è una gigantesca vetrina per i suoi prodotti, Vanbgtati ovunque, gli Himars hanno infatti il vento in poppa. Già presenti in Ucraina, sbarcheranno presto in Polonia, in Romania, in Estonia, in Lettonia, in Australia, forse in Francia e forse anche in Ungheria. Se interessa, è giusto sapere che ogni razzo sparato costa 150mila dollari. Come a dire: agli affari non c’è limite.
UNA LAUREA PER FARE LA SPAZZINA – Tra i primi 200 assunti dalla municipalizzata della raccolta rifiuti di Napoli, ci sono 12 laureati, 169 diplomati alle superiori e appena 19 con la terza media: è una buona o una cattiva notizia? È contemporaneamente sia l’una che l’altra cosa, a seconda che si guardi alla questione dal lato dell’offerta o da quello della domanda di lavoro, di come agiscono i lavoratori o di cosa offre il territorio. Le 200 persone che l’altro giorno hanno firmato un contratto di apprendistato per essere addetti alla pulizia delle strade di Napoli sono l’avanguardia di 500 che l’azienda intende assumere a tempo indeterminato nei prossimi mesi. Sono i vincitori del “concorsone” chiuso a settembre, a cui hanno partecipato ben 26mila candidati, fra cui appunto 1.232 laureati e moltissimi diplomati. Un pattuglione di disoccupati e sottoccupati alla ricerca di un’opportunità. Anche solo di un futuro, prima ancora che migliore.
Il fatto che pure i laureati e i diplomati – avvocati e archeologi, dottori in ottica o in studi umanistici, geometri e liceali – scelgano di raccogliere i rifiuti per strade e vicoli del centro storico testimonia innanzitutto che alla maggior parte dei giovani non manca la volontà di lavorare, anzi. Anche accettando mansioni non corrispondenti alle proprie competenze e iniziali aspirazioni. Prevale evidentemente la voglia di rendersi utili, di aiutare o rendersi autonomi rispetto alla famiglia di origine. E, in controluce, è perfino possibile apprezzare l’emergere di una nuova mentalità. Le nuove generazioni, infatti, sembrano maggiormente capaci di badare meno al presunto prestigio sociale dei diversi impieghi e più alla reale capacità di incidere nella società con la propria attività, meno alle etichette e più alla sostanza. E dunque, anziché sentirsi umiliati nel ruolo di “spazzini”, oggi i giovani sono al contrario orgogliosi di potersi impegnare nella pulizia della città.
Consci, come la pandemia ha confermato, di far parte della categoria dei lavoratori essenziali dei servizi pubblici; testimoni del fatto che il lavoro certo dà dignità alla persona, ma è la persona che rende degno e onorevole qualsiasi lavoro, quando è fatto bene, quando viene pensato anzitutto come servizio agli altri.Non possiamo, però, negare che per molti di loro si sia trattato di un “ripiego” rispetto ad altre ambizioni e desideri. E qui arriviamo al lato negativo della notizia: quello relativo a cosa il nostro Paese e il Mezzogiorno in particolare siano in grado di offrire a un giovane o a un disoccupato.
Tra i criteri di scelta che si possono ravvisare per la partecipazione a questo concorso, infatti, ci sono certamente la stabilità del posto di lavoro, garantita dalla municipalizzata, e la possibilità di migliorare la propria posizione in futuro, magari con altri concorsi e promozioni interne.
Opportunità che attualmente al Sud sono molto ridotte, se si considera che ben il 24% dei lavoratori del Mezzogiorno (il 13% al Nord) versa in una condizione di «precarietà persistente», come sottolinea l’ultimo rapporto della Svimez. La sicurezza di un vero contratto, di retribuzioni e orari regolari, di diritti esigibili, rappresenta infatti un fattore attrattivo fondamentale per chi in molte zone del Sud è abituato a vedersi offrire solo salari part-time per lavori full-time, finte collaborazioni, quando non attività in “nero”. Questo anelare al posto fisso pubblico segnala così anche la sconfitta della domanda di lavoro delle imprese nel Mezzogiorno, il loro scarso sviluppo, le modalità non sempre “sane” di impiego dei lavoratori.
C’è infine un ultimo dato da prendere in considerazione. Ed è quello relativo alla “concorrenza” che laureati e diplomati finiscono per esercitare rispetto a chi ha minore istruzione. Se ai concorsi per un lavoro manuale “sicuro” concorre chi ha un titolo di studio terziario, a cosa potrà mai aspirare chi non ha potuto o voluto studiare? Quale impiego regolare potranno mai trovare, per fare un esempio, le decine di migliaia di percettori del Reddito di cittadinanza, in grande maggioranza del Mezzogiorno, che si sono fermati alle medie inferiori quando non alle elementari? In Italia un quarto degli occupati (5,8 milioni di persone) è sovra–istruito, cioè svolge un’attività per la quale sarebbe richiesto un grado di istruzione inferiore. E ciò nonostante il nostro Paese abbia meno laureati e diplomati rispetto alle altre nazioni europee. Questo provoca, tra l’altro, un effetto di “spiazzamento” per i meno istruiti e spesso più poveri, che aggrava le loro difficoltà. Si può assegnare la lode, dunque, ai laureati, ai diplomati e a tutti coloro che hanno partecipato al concorso per diventare netturbini, ecco la buona notizia. Quella cattiva, invece, è che il Paese così non passa l’esame e perde: il nostro tessuto economico offre scarse possibilità di occupazione, spesso non ottimali, ed è lacerato in più punti. Ma, ciò che è peggio, a politica e forze sociali sembra mancare, oggi, un progetto complessivo per ricucirlo.