QUELL’UOMO TROVATO GIOVEDÌ senza vita a Napoli, non ha ancora un nome e neppure si sa da dove venga. Dice la Polizia che forse è un senza fissa dimora, uno dei tanti cosiddetti scartati dalla società, uno che vale poco, per tanti forse niente. Non è il primo sconosciuto che muore senza un nome, un perché, senza che qualcuno lo riconosca. “Apparteneva al mondo dello scarto, degli scartati – ha scritto un cronista -, ma era anche lui un uomo, di cui nessuno però ha tenuto conto”. È facile parlare degli scartati, disquisire sulla loro posizione, essere pro o contro la loro presenza in città. Sono ingombranti, danno fastidio, chiedono, sporcano. È vero. Ma sporcano come tutti quanti noi, anzi, a dire il vero, inquinano di meno. Certo, non hanno la possibilità di recarsi in un bagno decente pur avendo le stesse esigenze di ogni essere umano. Dormono all’aperto. Mangiano quel che capita, quel che trovano nei cassonetti dell’immondizia, il nostro superfluo. Si coprono con i nostri abiti dismessi, vecchi, fuori moda che nessuno indosserebbe più, quelli destinati al circolo del riciclo. Stanno là, come un pugno negli occhi, come coscienza critica. Come a metterci alla prova. E siccome è difficile sopportare la prova, è preferibile scappare. È successo, succede e succederà ancora. Infatti, gli umani (uomini donne, chiunque), nei momenti più difficili, quando guardare negli occhi la vita è insopportabile, scappano. C’è sempre una strada di fuga pronta all’uso, c’è sempre un luogo in cui nascondersi. Hanno ragione. Hanno alcune ragioni da spendere, ma sbagliano. La vera rivoluzione non avviene fuggendo dalla realtà, ma guardandola negli occhi, tenendo a bada la paura, l’ansia, le pretese delle comodità. La vera rivoluzione, infatti, avviene nel momento in cui si decide da che parte stare. E guai a stare con il piede in due scarpe. Con i poveri e i disperati non sono ammessi doppi pesi e doppie misure. Chi tende la mano spera misericordia e comprensione, niente di più. E in quel chiedere c’è la sua storia, il suo dramma personale, la rappresentazione dell’indifferenza… Eppure gli scartati, che anche oggi resteranno ai margini delle nostre società opulente e contraddittorie, potrebbero essere recuperati e di nuovo rivestiti della loro dignità. Basterebbe… Non lo so, forse trasformando la città in “città dell’uomo”.
VENTICINQUE ANNI FA IN IRLANDA DEL NORD – Erano le 17,36 del 10 aprile 1998 quando l’accordo di pace venne sottoscritto. La più lunga guerra europea del XX secolo, che affondava le radici nei secoli precedenti, poteva dirsi finalmente conclusa. La fase decisiva dei negoziati era durata trenta ore ininterrotte e fino all’ultimo aveva rischiato di saltare facendo precipitare di nuovo l’Irlanda del Nord nel caos con gli unionisti sul punto di andarsene, ma il premier britannico li fermò mettendo per iscritto vincoli temporali precisi sullo smantellamento degli arsenali dell’Ira. A Belfast, mentre il vento della storia soffiava forte, un gruppo di bambini aveva legato ai cancelli del palazzo che ospitava la trattativa palloncini colorati e cartelli che invocavano la pace. Un corrispondente statunitense osservò che mentre serbi, croati e musulmani avevano fatto la pace in Bosnia sotto la minaccia dei bombardieri americani, a Belfast i negoziatori erano stati costretti a mettersi d’accordo per non deludere quei bambini… Dice la storia che la fase decisiva del processo di pace anglo-irlandese, durata quasi due anni, era stata innescata dalla constatazione dello stallo bellico, poiché i britannici si erano resi conto che non avrebbero potuto sconfiggere la resistenza repubblicana mentre quest’ultima non sarebbe riuscita a costringere militarmente gli inglesi al ritiro. Ma a favorirla furono anche la fine della Guerra fredda e gli effetti economici di lungo periodo dell’adesione della Repubblica d’Irlanda all’Ue, che avevano trasformato profondamente un Paese un tempo povero e agricolo. La prima scintilla del processo di pace risaliva addirittura al 1981, quando un prigioniero politico era stato eletto al Parlamento di Westminster durante lo sciopero della fame in carcere che l’avrebbe condotto alla morte. Oltre 30mila voti avevano suggellato il suo martirio convincendo il movimento repubblicano irlandese che la guerra si poteva vincere anche con le armi della democrazia. Allora scoppiò la pace, che per avvolgere tutto e tutti dovette però sopportare altre violenze e incomprensioni. Però, fu pace, che ancora resiste sebbene tormentata da tanti fantasmi del passato.
SESSANTA ANNI FA Giovanni XXIII, il papa buono, consegnava al mondo la sua enciclica sulla pace. Così, mentre i potenti della terra iniziavano a camminare sulla strada del disarmo e della distensione, finiva di fatto la dottrina della “guerra giusta”. Sessant’anni dopo quel testo è ancora attuale e purtroppo disatteso. Oggi la persuasione sugli effetti devastanti di un’eventuale guerra atomica non sembra infatti altrettanto presente come lo era in quell’aprile 1963. “Oggi il mondo – ha scritto Andrea Tornielli – è squassato da decine di conflitti dimenticati, e una terribile guerra, iniziata con l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina, è in corso nel cuore dell’Europa cristiana. La cultura della nonviolenza fatica a farsi spazio, mentre persino le parole “trattativa” e “negoziato” appaiono a molti come blasfeme. Anche il rafforzamento di un’autorità politica mondiale in grado di favorire la risoluzione pacifica dei contenziosi internazionali ha ceduto il passo allo scetticismo. La diplomazia appare afona, la guerra e la folle corsa al riarmo sono considerate inevitabili”. Eppure, nonostante questo quadro fosco, i principi elencati da Papa Roncalli nella Pacem in terris non solo interpellano ancora le coscienze ma sono quotidianamente messi in pratica da chi non si arrende all’ineluttabilità dell’odio, della violenza, della prevaricazione, della guerra. Sono testimoniati da quegli “artigiani di pace” che sempre si impegnano con le loro missioni in Ucraina e in tante altre parti del mondo, spesso mettendo a rischio la loro vita. Sono testimoniati da tutti coloro che prendono sul serio parole che servono “per dire davvero no alla violenza”, per gridare che “non basta evitare atti violenti, che occorre estirpare le radici della violenza se si vuole davvero la pace”. Rileggere o leggere oggi quell’Enciclica significa rendersi conto che gli sforzi per fare la pace non bastano mai. Giovanni XXIII, con umiltà e coraggio, con quel sublime testo disegnava “un nuovo ordine mondiale fondato sui valori di verità, giustizia, solidarietà e libertà”, considerava la pace “anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi”, non solo assenza di guerra, ma vero traguardo di un processo educativo, spirituale, politico, economico in grado di cambiare il mondo… Sono passati sessant’anni. E il mondo continua a “fare le guerre”, a fomentare e a “a far fare le guerre. E ancora non cessano le violazioni di diritti elementari e della dignità umana. E non solo vengono ignorati gli appelli a diffondere una cultura della nonviolenza, ma si rivelano carta straccia pure accordi e patti sottoscritti formalmente da non pochi governi. Però, comunque la si guardi, quell’Enciclica invocante “pace sulla terra” resta viva, forse incompiuta ma viva e forte… Merita rilettura o lettura…
LUCIANO COSTA