Bombe sugli innocenti in fuga

Quel che il mondo temeva è accaduto: ieri all’aeroporto della capitale afghana i terroristi dell’Isis hanno colpito l’aeroporto con un attacco kamikaze. Prima un attentatore si è fatto esplodere vicino all’Abbey Gate dello scalo, poi un altro terrorista (ma si parla di più uomini armati) ha iniziato a sparare sulla folla. L’area colpita è appena fuori lo scalo dove, nei pressi di un canale, migliaia e migliaia di persone aspettano che i loro documenti vengano esaminati. Poco più tardi, davanti all’hotel che ospita diversi cittadini americani in attesa di rientrare in patria, un’altra esplosione è stata causata da un’autobomba. Secondo gli esperti questo dimostra che l’attacco è stato preparato come una vera e propria operazione militare pensata per colpire sia afghani che occidentali. Una testimone ha detto: “Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue”. Pesante il bilancio (almeno cento morti, quasi duecento feriti tra i quali almeno quindici militari americani) drammatica la prospettiva che si apre in un paese allo sfascio, ridotto a brandelli dalla furia dei taleban, oppresso da imposizioni che lo ricacciano indietro di trent’anni, in balia di un fanatismo religioso di cui (forse) il mondo ave va dimenticato l’esistenza… “Qui – ha scritto un volontario impegnato a distribuire, nonostante tutto, acqua e qualche medicina – non si vive, la gente cerca solo di fuggire verso un qualsiasi luogo disposto ad accogliere, ovunque si vedono armi e violenze, bambini e donne che non sanno dove nascondersi, ragazzi e ragazze picchiati perché sorpresi ad ascoltare musica e poi armi e ancora armi pronte ad ammazzare…”. Tra le fotografie e i commenti pubblicati sui giornali c’è il dramma di un popolo che, ha scritto un corrispondente “non ha più la forza di credere che domani possa essere meno violento di oggi”.

Poi, quelle tragiche fotografie che mostrano la folla accalcata sotto il muro che protegge l’aeroporto, con bambini alzati al cielo in cerca di braccia che li accolgano, gettati oltre il muro sperando per loro libertà e buon futuro, con donne straziate dal dolore e già pronte per essere rese invisibili dai nuovi dominatori, con persone maltrattate e rese schiave dalla logica perversa della guerra. “No, questo non è più un Paese da abitare – ha scritto un fuggiasco -, è soltanto un campo di orrenda prigionia, un campo dove se non si vuol morire è obbligatorio sottomettersi…”.

“Ma per quanto ci affanniamo con le parole a raccontare i fatti – ha scritto Luigi Maria Epicoco -, ci sono immagini che sanno rendere l’idea meglio di mille parole. È quello che sta accadendo in Afghanistan in questi giorni. Il dramma e il dolore è reso più eloquente dalle immagini che dalle mille analisi socio-politiche di cui sovrabbondano i media e i dibattiti pubblici di questi giorni”. Tra queste immagini ce ne sono alcune che hanno toccato la coscienza di molti: una madre che spinge il proprio figlio al di là del filo spinato, un padre che solleva il proprio bambino per consegnarlo a un soldato dall’altra parte della barricata, colonne di fumo che si alzano dalla folla per dire che una bomba è appena scoppiata seminando morte e terrore. Seguono domande angoscianti: cosa può spingere un genitore a fare qualcosa di così drammatico, di così doloroso? Chi spinge persone qualsiasi a mettere bombe destinate a uccidere altre persone qualsiasi? Chi compra le bombe e le armi che seminano lutti?

Per i bambini gettati oltre il muro, ha scritto il giornalista “torna alla mente il gesto di Iochebed, la madre di Mosè, che spinta dalla medesima disperazione spinge il proprio figlio nelle acque del Nilo nell’estremo tentativo di salvarlo. Lo abbandona perché si salvi. Il cortocircuito emotivo è proprio nella contrapposizione di queste due parole: abbandono e salvezza. Credo che solo un genitore possa capire fino in fondo il dolore di un gesto simile. Eppure nella tragedia di quel distacco c’è una dichiarazione di amore: sono disposto a lasciarti affinché tu possa vivere. Prima o poi nella vita, in ogni relazione di bene, bisogna che si arrivi alla maturità di un simile distacco: lasciare andare affinché la vita divenga possibile. Ma come per Mosè e come per i figli afghani, questo gesto non è la celebrazione di un distacco frutto di maturazione, ma un distacco traumatico frutto di violenza e sopruso. Nella nostra impotenza potremmo però diventare come la madre di Mosè e sentire la responsabilità di continuare a tenere lo sguardo su questi figli per vedere cosa ne sarà di loro, e cercare, come ella ha fatto, di trovare un modo affinché possa riaccadere un ricongiungimento necessario”.

Qualcosa di simile l’ho letto e riletto nel romanzo (La strada, di Cormac McCarthy) che in un’atmosfera apocalittica racconta la storia di un padre e di un figlio che tentano di salvare la propria vita intraprendendo un viaggio di cui sanno ben poco… “Ma alla fine il padre non ce la fa, sente che è alla fine e spinge suo figlio a non arrendersi, a proseguire, ad andare avanti anche senza di lui”. Il padre prese la mano del figlio e ansimando gli disse: “Devi andare avanti, io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare… Continua ad andare verso sud, fa’ tutto come lo facevamo insieme…”. “Ma io voglio restare con te disse il figlio. “Non puoi… Non puoi, devi portare il fuoco”, gli rispose. “Non so come si fa, non so neppure se è vero fuoco, neanche so dove sta…” obiettò il figlio, “Sì che lo sai – disse allora il padre -. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo…”.

Così, con parole riportate, ancora una volta la storia ci consegna una tragedia. Ma noi, popolo che spera giorni migliori, “abbiamo la responsabilità di non spegnere la speranza, di salvare il fuoco, di proteggere la vita specie quella dei più deboli, sapendo che dietro di loro c’è chi è disposto a sacrificarsi perché ciò accada”. E questo è esattamente Il contrario di ciò che vuole imporre il terrorismo, di ciò che i terroristi vanno dicendo a Kabul e ovunque hanno posto la loro residenza.

LUCIANO COSTA

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