Cercando Natale ho trovato…

Dalle mie parti il primo ad accendere le luminarie di Natale è stato Giovanni, un solitario che usa la pensione che lo Stato gli ha concesso (la minima, non essendo chiaro se gli anni lavorati fossero stati contribuiti secondo giustizia) prima per sopravvivere e per sommergere di risate tutti coloro che cercano felicità in quantità industriale, poi per circondare la sua modestissima abitazione di stelle, che puntualmente accende quando l’aria di autunno diventa più fresca, le cime dei monti imbiancano, il freddo lo obbliga a consumare la legna accumulata e, in aggiunta, ad accendere la caldaia, certo generosa dispensatrice di buon clima, ma amara come il fiele quando si tratta di saldare il conto del metano che ella ha consumato. L’ultimo ad accendere luci e stelle, invece, è il Professore, che per risparmiare e aggiungere utili al suo già cospicuo patrimonio, le luci le accende solo alla vigilia.

Giovanni e il Professore sono il segno di un Natale che ha mille sfaccettature, in cui gioia e speranza, luci e ombre, regali e miserie, troppo e troppo poco, ricchezza e povertà, guerra e pace, odio e perdono, misericordia e disperazione, pacchi dono e vacanze, di tutto e di più, ma anche di meno… s’incontrano e si scontrano, si confondono e si fondono, si cercano e si annullano tra auguri pieni di felicità e altrettanti auguri pieni di niente. Preferisco Giovanni e capisco le paure del Professore, ma oso sperare che al primo, ovviamente quando verrà il suo giorno, sia garantito il giusto e immediato paradiso, mentre al secondo il paradiso gli venga concesso dopo il tempo necessario perché sia purificato dalla bramosia dell’accumulo e dalla conseguente sua avarizia. Poi, siccome la misericordia di Dio è talmente grande e possente da superare qualsiasi umana interpretazione, succederà che Giovanni e il Professore, ognuno con le sue luci e con le sue stelle, vedrà il Paradiso e di Paradiso si sazierà.

Nel frattempo, ho visto accendersi, in rapida successione, le luci di Natale in metà del mondo, le candele in un altro quarto e le lucciole nella restante porzione di globo. Tutto questo perché, nonostante si celebri la festa più bella e più dolce, è così che vanno le cose. Ecco allora affiorare il dubbio sul Natale che c’è e che forse non c’è; che c’è per chi può accendere le luci e che non c’è per chi ha solo una candela o una lucciola a disposizione. E al dubbio di un “Natale” che ha in sé “la forza di una festa disconosciuta” s’accompagna la visione del mondo così come è e appare oggi: disegnata nella prospettiva del potere (“i vincitori – ha scritto Karl Lehman – occupano i primi posti; le vittime, se mai, vengono ricordate brevemente”), oppressa da incomprensioni e guerre, soggiogata dalla paura, alla mercé di terroristi spietati ma inutili.

Il viaggio nel mondo alla ricerca di un Natale che forse non c’è, incomincia da qui – Roma, Milano, Napoli, Palermo, Brescia, ovunque voi siate – e corre fino a Parigi, che da qualche parte conserva ancora i segni delle violenze subite da mani terroristiche, tra gente diversa che sfilare tra vetrine, fiori e luci alla ricerca di un dono da donare, in mezzo a giovani incapaci di comprendere perché non si possa essere tutti amici e fratelli, cercando chiese in cui abbia trovato spazio un presepio dove la capanna e il Bimbo benedetto, benché circondati da sabbia e cenere, sono segni di speranza. Parigi, adesso, senza volerlo abbraccia e raffigura tutte le altre città d’Europa e del mondo. Chissà se domani, cioè quando la stella del Natale si poserà sulla facciata della Basilica di Notre Dame, la Chiesa Madre di Francia, che curate le ferite inferte dal fuoco è di nuovo pronta ad accogliere, chissà se questa città, insieme a tutte le città del mondo, troverà tempo e gioia sufficienti per cantare ancora “…pace in terra agli uomini di buona volontà”!

Il viaggio alla ricerca di un Natale che forse non c’è, lì è incominciato e qui finisce. Mi è infatti difficile immaginare di approdare in questa o quell’altra città senza che il groppo che ostruisce la gola in questo tempo di pandemia e di paure possa andarsene lasciandomi libero di vedere e pensare qualcosa di diverso e di più amabile di quello che è già andato in scena. “Non fermarti – mi ha detto Giovanni -, vai dove ti porta il cuore, racconta la piccolezza degli uomini e la grandezza del mistero che avvolge il Bimbo”. Come quella volta, nel lontano 1968, quando le parole pronunciate da un Papa – Paolo VI –  nella Messa della Notte Santa (celebrata per gli operai del Centro siderurgico di Taranto), colorarono di buono un quotidiano già turbato dal vento della rivoluzione sessantottina e spinsero tanti che “speravano cieli e terre nuove” a muoversi senza paura, ad aggrapparsi alla speranza piuttosto che alla disperazione. Il Papa bresciano, guardando gli uomini della terra, gli operai e il mondo che quella notte stava davanti al televisore in attesa di luce, leggendo nel cuore e nella mente di ciascuno disse: “Siamo venuti, affinché la Nostra presenza vi dimostrasse la presenza consolatrice, salvatrice di Cristo in mezzo al mondo meraviglioso, ma vuoto di fede e di grazia, del lavoro moderno. Siamo venuti per lanciare di qui, come uno squillo di tromba risonante nel mondo, il beato annunzio del Natale all’umanità che sale, che studia, che lavora, che fatica, che soffre, che piange e che spera; e l’annuncio è quello degli Angeli di Bethleem: oggi è nato il Salvatore vostro, Cristo Signore”.

Quella notte stessa, al presepio costruito nell’oratorio del paese (una porzione di deserto fatto di cenere e sassi con al centro soltanto la raffigurazione del Natale protetta da una campana di vetro), sollecitati dalle parole di Paolo VI, aggiungemmo una lingua di muschio su cui fiorivano case, capanne, pastori e angeli che cantavano l’Alleluia più sincero. Giovanni, vedendolo rifatto a quel modo, disse che si trattava di “un presepio vero”; il parroco, fino al giorno prima scettico e incerto se benedirlo o proibirlo, mandò a dire che apprezzava l’opera compiuta nella notte.

Qualche anno fa, tra le stradine di un paesino di montagna, ho visto i presepi del mondo: un centinaio, uno diverso dall’altro, tutti orientati al bello della vita, ognuno recante messaggi di pace e di concordia. Ripensando alle emozioni vissute visitando quel magico paese ho deciso che il giro del mondo alla ricerca di un Natale che forse c’è e forse non c’è, altro non è e non può essere che un esercizio di stile fomentato da un “pensare negativo” e inficiato da “distinguo” che non hanno ragione d’esistere, soprattutto se il cuore e la mente sono disposti ad ascoltare il “lieto annuncio” e a far posto anche al peggiore degli abitanti della terra, all’ultimo degli sconosciuti, al più povero dei poveri, anche al ricco e al potente, perché di ciascuno è il “raggio di luce” che regala speranza e bontà; perché di tutti e per tutti è il “buon” Natale.

 

LUCIANO COSTA

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