Neanche il tempo per festeggiare i medagliati dell’Olimpiade – accolti come si conviene agli eroi – ed ecco affacciarsi altri atleti che cercano medaglie. I primi, quelli che le medaglie le hanno già conquistate, da un punto di vista estetico e funzionale sono la meglio gioventù; quelli che le medaglie andranno a cercarle a partire dal prossimo 24 agosto sugli stessi campi hanno tutto il necessario per vincere – forza, coraggio, muscoli, voglia di vincere, passione e amore per lo sport praticato -, ma non quella perfezione motoria-funzionale-estetica che secondo i canoni fa la differenza.
Due Olimpiadi, dunque, una uguale all’altra, ma una semplicemente “olimpiade”, l’altra “paralimpiade”… quasi un altro mondo che cerca medaglie mettendo in vista il rovescio della medaglia per rammentarci che nonostante la proclamata forza siamo fragili, incompleti, menomati… Ed è proprio quel suffisso di derivazione greca — para, che vuol dire vicino, di fianco ma anche oltre – a dirci che è la stessa cosa, modulata in modo diverso, ma uguale alla precedente, di sicuro non una ipo (che vuol dire sotto, posizione inferiore, inferiore al normale) Olimpiade, con gare e atleti di serie inferiore, anzi… Perciò i Giochi Olimpici di Tokyo 2020 continuano e si concluderanno solo domenica 5 settembre con la fine delle Paralimpiadi. Poi il testimone passerà a Pechino, che dal 4 febbraio 2022 ospiterà Olimpiadi e Paralimpiadi invernali.
Cosa resta dell’Olimpiade? Voltoi sorridenti, lacrime amare, dichiarazioni di amicizia, voglia di rivincita, storie di persone… Come quella di Timothy Cheruiyot, campione del mondo dei 1500 metri, atleta keniano, africano anche se indossa la maglietta del Paese che lo ha accolto, battuto in volata dal Jakob Ingebrigsten, norvegese, ma pronto ad abbracciarlo e a infilargli al polso il braccialetto con i colori del Kenya, segno di fratellanza e di rispetto. O come quell’altra, scritta da Muta Ezza Barshim, del Qatar, e da Gianmarco Tamberi, dell’Italia, che in omaggio al “communiter” (insieme) aggiunto al motto olimpico hanno scelto di condividere la medaglia d’oro nel salto in alto, spiazzando chi voleva un vincitore per forza, perché “si può cambiare la cultura della vittoria a tutti i costi e così vincere insieme”.
O l’altra ancora, quella del velocista italiano, specialista della terza frazione della staffetta, quella che affronta la curva e prepara la volatona finale sul rettilineo, figlio di migranti, nato e cresciuto in Italia, che dopo la vittoria ha promesso alla mamma (una delle tante badanti che si guadagnano da vivere mettendo attenzioni e affetti laddove la frenesia del vivere li ha cancellati) una casa e giorni radiosi da vivere insieme. Oppure, quella del team dei rifugiati (atleti fuori casa e senza patria ai quali lo sport olimpico ha garantito il diritto di rappresentanza e di partecipazione).
Anche quella, amarissima, di Saamiya Yusuf Omar, la ragazzina che ai Giochi di Pechino, nel 2008, appena diciassettenne, aveva corso per la sua Somalia arrivando ultima nei 200 metri, che aveva la speranza di ripetere l’esperienza olimpica a Londra nel 2012 ma che invece è morta, a largo di Lampedusa, nel naufragio del barcone sul quale aveva investito il suo sogno di giovane donna. Saamiya, di sicuro, sarebbe arrivata ultima anche in quella gara londinese, o forse penultima, ma di sicuro sarebbe stata prima nella classifica di chi sa sperare…
Altre storie, tutte importanti, le conservo per raccontarle, quando e se vorrà, a Vittoria Celeste, adesso semplicemente curiosa, domani sicuramente protagonista del mondo che verrà: bello se così lo avremo conservato; mediocre se lo avremo sciupato senza tener conto delle storie meritevoli di attenzione; brutto, bruttissimo se a nessuna storia meritevole avremo garantito cittadinanza.
LUCIANO COSTA