Chiese se non vuote, almeno quasi vuote. Colpa della pandemia? Anche, ma già prima il numero dei frequentanti era in ribasso. Poi, le chiusure, i distanziamenti, le misure per impedire assembramenti, i banchi delimitati da strisce, il numero di ammessi rigorosamente stabilito a priori e l’interpretazione soggettiva delle norme hanno fatto il resto. Chiese più o meno vuote, ma numero di messe e rosari in televisione moltiplicati. Segno di una religiosità riscoperta e di una fede non disposta a farsi da parte? Forse. Forse è anche il lato buono delle cronache legate a questo anno e mezzo di pandemia. Adesso però è tempo di ricominciare a pensare alla presenza in chiesa come espressione dell’essere chiesa-comunità… Di questo e del mondo di celebrare si è occupata la settimana liturgica – tradizionale appuntamento in cui vescovi e sacerdoti e religiosi fanno il punto delle problematiche legate allo scorrere delle celebrazioni nelle parrocchie e chiese del mondo – svoltasi nei giorni scorsi a Cremona e conclusa con un appello a non “avere paura di dire che le nostre Messe avranno numeri sempre più piccoli e saranno per comunità ridotte”. A dirlo è stato il vescovo di Crema, per il quale “la pandemia ha messo alla prova e talvolta ha svuotato le parrocchie” Ma non è il caso di scandalizzarsi “se c’è un gregge smarrito che si è allontanato dalle chiese e quindi dall’Eucaristia. Infatti, dal momento che è Cristo a raccogliere la sua comunità, è lo stesso Cristo che custodisce la libertà dei credenti e non la trattiene”. Tutto ciò significa rassegnarsi? “Neppure per idea – ha sostenuto il vescovo –. Semmai, serve prendere coscienza della realtà. Giusto preoccuparsi, ma mai cedere alla logica del lamento”.
E se il terremoto del Covid ha sconvolto la vita ecclesiale in Italia, il terremoto della fede “è pronto a ristabilire il primato dell’essere partecipi convinti di ogni azione che vuole celebrare il Signore”.Chiese vuote o semi-vuote, “ma non è il caso – ha detto un altro vescovo – di disperare e di fasciarsi la testa”. Soprattutto perché, ripete lo stesso vescovo “il Signore è partito da pochi e a loro ha chiesto di essere fermento e lievito. Se è così, e di sicuro è così, questa è l’ora in cui ciascuno deve tornare al suo posto in chiesa e dentro la comunità, è il tempo in cui deve riappropriarsi in pieno del suo cristianesimo da vivere giorno dopo giorno, è il momento di riprendere il Vangelo e di annunciarlo, di partecipare all’Eucaristia e di portarla in mezzo alla gente, di vivere la parrocchia come comunità ideale in cui ogni persona agisce per sé e per gli altri, di sentirsi Chiesa universale, aperta al mondo e alle sue speranze”.
Tornano allora alla mente le parole “provocatorie” pronunciate da papa Francesco quando, in apertura della Settimana liturgica aveva posto l’accento sulla marginalità verso la quale sembrano inesorabilmente precipitare la domenica e l’assemblea eucaristica.Per impedire che ciò diventi sistema “c’è bisogno di un atteggiamento ospitale, di comunità aperte. E intorno all’altare tutti devono sentirsi a casa…”. Occorre ripartire da quella “dinamica missionaria che è già iscritta nella celebrazione stessa”e che implica anche l’urgenza di “sopportare chi è più debole”. E’ cioè necessario “immaginare la Chiesa come una comunità che ha ingressi e uscite differenti”, cioè capace di riconoscere “le varietà di interessi e di percorsi di fede delle persone che meritano di essere tutte accolte”.
Guai però a fare della Messa una parentesi o peggio un’interruzione del solito tran tran. La celebrazione, invece, deve alimentare la vita stessa in modo che ogni fedele possa rimettersi ogni volta in cammino alla ricerca del prossimo più bisognoso”. Però, prima o con temporaneamente, ogni comunità dovrebbe chiedersi: “Quale immagine diamo della nostra fede nelle liturgie?”. Secondo i vescovi “se mostrassimo la gioia di ritrovarci insieme nel nome di Cristo Risorto, qualcuno potrebbe chiedersi da che cosa deriva questa gioia, questa felicità… E magari esserne contagiato”. Poi, certo, di fronte a comunità ormai multiformi diventa “opportuno pensare a modalità differenti di celebrazione” Basta dunque “con “un’applicazione automatica” del rito a qualsiasi assemblea, a prescindere da chi la forma. “Se siamo in una realtà di periferia – hanno affermato i vescovi riuniti a Cremona -, si possono prevedere adattamenti, non per fare menoma per fare meglio”. Ma il tutto deve però avvenire senza nulla concedere alle Messe fai-da-te. “Infatti, non possiamo costruire liturgie a propria immagine e somiglianza”.
Invece, ogni Messa celebrata e ogni azione liturgica intrapresa deve “interessare e animare il popolo dei fedeli”. Pur non avendo molta dimestichezza con la liturgia e tanto meno con le tradizionali settimane liturgiche celebrate, par di capire che la Chiesa vive di segni e gesti che diventano espressioni di devozione e di carità intelligente, di orazione e di condivisione accorata e convinta del dramma vissuto da fratelli vicini e lontani, di comunione fraterna che scardina gli egoismi per fare posto al bene comune… Da Cremona, ancora una volta, s’è levata la voce della Chiesa per dire che non si può rimanere silenti di fronte a popolazioni costrette alla fame, di fronte a chi è oppresso dalla guerra e calpestato dal terrorismo, di fronte a chi vive di stenti a causa della pandemia, di fronte a una qualsiasi persona che fatica a vivere. E perché il richiamo non fosse vago, qualcuno ha a chiamato per nome i luoghi dove più stringente è il dovere di intervenire: Haiti, Afghanistan, Mediterraneo, Balcani, Turchia, Mexico, Africa…
Ieri ad Assisi, terra benedetta e fonte della fraternità francescana,s’è levata la preghiera che “unita al pianto e alla supplica che sale verso Dio dall’Afghanistan che in questi giorni vive momenti drammatici di incertezza e di violenza, impegna tutti ad aprire il cuore alla solidarietà e all’accoglienza, ad ascoltare da Haiti e da tante regioni del mondo il grido della Terra, la nostra casa comune, devastata dalla potenza distruttiva del fuoco e dell’acqua”. Di fronte a questi fenomeni “nessuno può rimanere indifferente”, soprattutto perché essi sono effetto del cambiamento climatico e della poca cura del territorio, dovuti a comportamenti individuali ma anche a condotte politiche ed economiche gravemente colpevoli. “Di fronte a tanta desolazione – ha allora ammonito il vescovo di Assisi –, risuona in noi con forza il Cantico di Francesco d’Assisi, potente invito a ricordarci che tutto ciò che esiste è in profonda relazione di fraternità. A noi la responsabilità di agire di conseguenza, a partire da ogni semplice gesto quotidiano di rispetto e amore, per spezzare la logica della violenza e dello sfruttamento e generare accoglienza e pace”.
LUCIANO COSTA