Nessuno ha vinto, tutti hanno perso. Oggi, più angosciati di ieri, aspettiamo lumi da Mario Draghi, l’uomo invocato e atteso, che il presidente Mattarella ha convocato per assegnarli l’incarico di formare un Governo di alto profilo istituzionale, cioè lontano dalle spartizioni partitiche, dentro i problemi, capace di guidare l’Italia fuori dalla crisi in cui il Covid e soprattutto i “covidini” (insieme di umani corti di ragioni e saggezza ma abilissimi nell’usare lacci e lacciuoli per ingarbugliare-avviluppare-intorpidire-storpiare e triturare ogni idea differente dalla loro). Ieri sera, probabilmente insieme a tanti altri che come me guardavano preoccupati al non evolversi della situazione, mi sono trovato a esclamare un solenne “che Dio ce la mandi buona”, con ciò intendendo la necessità di un intervento Alto, assolutamente al di sopra di qualsiasi parte, un intervento benigno, un soffio di spirito destinato a mettere ordine nel disordinato procedere degli numani. Adesso, dopo aver ascoltato commenti e giustificazioni il più delle volte al limite del ridicolo, con il sacco delle colpe (ovviamente degli altri) ben colmo e il rimpianto di aver assistito all’ennesimo balletto delle responsabilità, rivolgo lo sguardo al Colle e dico: “Presidente, pensaci tu!”.
In effetti, in questo lago azzurro trasformato in pantano da chiacchiere, silenzi, omissis, accuse, divieti, contrapposizioni, dinieghi, promesse, licenza, bugie, verità, sussurri e grida, l’unica certezza è il Presidente, Sergio Mattarella, uomo pacato, preciso e coraggioso, punto di riferimento di un Paese deluso e preoccupato, ma capace di mettere al di sopra delle grida scomposte il pacato e risoluto richiamo alla responsabilità, che deve essere di tutti, che è la prima componente di un impegno finalizzato al bene di tutti. Mattarella, che ho immaginato sicuramente avvilito dalla pochezza degli argomenti portati a discolpa, ha accettato il fallimento del tentativo affidato al Presidente della Camera senza usarlo come alibi per mandare tutti a casa, mettendolo invece tra gli imprevisti di cui la democrazia deve sempre tener conto, anche nelle più acerrime burrasche, se vuole onorare il suo ruolo.
E sull’imprevisto, più che dolersi, Mattarella ha argomentato sulle due varianti possibili: Governo di Alto profilo; elezioni anticipate. Parlando agli italiani è partito proprio dalle elezioni per dettare la sua alta lezione politica. “Sono l’essenza della democrazia – ha spiegato -, ma non quando, come adesso, tutto rischia di naufragare trascinando con sé certezze, speranze, sogni, opportunità, credibilità e possibilità di essere protagonisti del grande sforzo messo in campo dall’Europa per sconfiggere la crisi…”. Poi, accantonato il ricorso anticipato alle urne, la richiesta di appoggio a un Governo di alto profilo istituzionale, non asservito ad alcuna posizione, solo orientato a guidare il Paese fuori dalle secche in cui è piombato. Oggi ne sapremo di più. Intanto, ancora una volta, spero/speriamo “che Dio ce la mandi buona!”.
Però, siccome penso che tanti non sappiano chi effettivamente è stato ed è Sergio Mattarella, provo a rinverdire la memoria riscrivendo pensieri che disegnano la sua nobile esistenza politica e ribadendo un concetto che tanti normalissimi cittadini hanno riassunto in questa semplicissima frase: “Meno male che c’è Mattarella”…
Meno male che c’è Mattarella
Non è l’uomo per tutte le stagioni, ma l’uomo giusto al momento giusto questo sì. Sergio Mattarella, anche ieri, ha mostrato il lato migliore della democrazia (attenta alla gente più che succube dei compromessi architettati dai politicanti) e messo in risalto quel che serve (fortezza, coraggio, mitezza, intelligenza, disponibilità, capacità di sintesi, senso dello Stato…) per essere degno servitore di tutti gli italiani. Sergio Mattarella, in cuor suo, anche ieri, guardava al disturbo che stava provocando e probabilmente si vergognava. In fondo, lui era la stessa “brava persona” che al Colle era salita con l’unica certezza di essere e di stare dalla parte della gente. Un alpino che gli era stato al fianco nel corso dell’adunata nazionale svoltasi a Brescia, di Mattarella disse che era “un signore attento ad ogni sfumatura, desideroso di capire anche le cose che noi non riuscivamo a dire, pronto a cedere il suo posto al vecio col cappello liso almeno quanto lise erano le giunture delle sue ossa, disponibile ad ascoltare e a mischiarsi con noi, popolo fedele a arrabbiato, tanto cortese e rispettoso da scusarsi per avermi lasciato in seconda fila e, alla fine, mentre salutava e ancora ringraziava, venirmi a dire che se per caso passavo dalla Sicilia lui ci sarebbe stato”.
Quando Mattarella venne eletto Presidente della Repubblica, l’allora sindaco di Castenedolo Gianbattista Groli, per anni e anni fedele accompagnatore di Mino Martinazzoli, sollecitato ad aprire il cassetto dei ricordi, gli riconobbe “il merito di aver taciuto quando parlare avrebbe significato regalare zuccherini agli asini e di aver parlato quando troppi asini golosi avrebbe ro voluto rimpinzarsi senza averne neppure il merito”. Altri tempi, ma neppure troppo differenti da quelli che stiamo vivendo. Tempi in cui si alternano politicanti buoni per tutte le stagioni, politicanti ciondolanti, politicanti interessati alle poltrone, politicanti allenati per predicare bene e razzolare male.
Mattarella e Martinazzoli, ne sono sicuro, “si intendevano anche senza parlare” Infatti, sapevano entrambi di essere voci scomode, di rappresentare un pensiero alto e quindi di non facile assimilazione, di non essere capi di partito, o di una fetta di partito, ma solo persone a cui altre persone guardavano con fiducia e con la speranza di veder sorgere un tempo migliore. Mino e Sergio, pur geograficamente lontani, hanno avuto il singolare pregio di poter ricominciare ogni volta il discorso senza dover riepilogare e senza essere costretti a riannodare le fila. Secondo Mino Mattarella, in un tempo di politica seria e meno disposta a inchinarsi al populismo e ai media, sarebbe stato l’ideale per sottrarre il Paese alle logiche spartitorie e per dare concretezza alla speranza e alle ragioni della politica. Invece, sappiamo che prevalsero quelli che alla politica chiedevano poltrone e prebende….
Sergio Mattarella, eletto Presidente della Repubblica, mise in chiaro che non era “di una parte, ma di tutti”, che era eel popolo e che col popolo avrebbe continuato a camminare. Eppure, oltre l’ufficialità, in pochi si presero la briga di leggere la sua storia. Ieri sera, ancora una volta, la sintesi di quella storia, era ancora lì a dirmi e a dirci che su quell’Uomo potevo e potevamo contare. Le pagine della sua storia, infatti, raccontavano senza ombra di dubbio la passione politica maturata fin da giovane, i legami con la famiglia, la comunanza di idee con il fratello Piersanti (barbaramente assassinato dalla mafia, che non sopportava quel suo modo pulito e schietto di intendere il servizio dovuto alla gente e allo Stato), gli anni di impegno silenzioso al fianco di Aldo Moro, il suo “non ci sto” messo in campo per non sottomettersi alle logiche della partitocrazia; la sua uscita dai palazzi della politica, il suo ritiro in Sicilia e poi, quel ritorno fatto vestendo l’abito del costituzionalista al posto di quello del politico di ruolo.
Per chi l’ha conosciuto, senza per questo sentirsi in dovere di pretendere un posto nell’elenco degli “amici”, Sergio Mattarella resta il professore silenzioso e schivo, però capace di esternare un malessere usando il bisturi della parola tagliente. Rimane il politico buono e disponibile, ma pronto a raccomandare all’amico ministro di non fidarsi troppo del buon esito delle dimissioni presentate senza avere in tasca il debito riscontro; la persona riconoscente, di quella riconoscenza che alla gioia del grazie sa aggiungere il dovere, anche doloroso, del ricordo; l’educato ospite, ospitale fino al punto di aprire la sua casa agli amici e di attrezzarla per essere alternativa ad una cena ufficiale già organizzata.
Tutto questo, e molto altro, è Sergio Mattarella, politico di lungo corso cresciuto alla scuola di Aldo Moro, in perfetta sintonia con Mino Martinazzoli, di cui ricalcava il fare “mesto e riguardoso”, segno di rispetto per chi era accanto e mai di supponente distacco. E quando tornò a Brescia per partecipare al funerale dell’amico andato avanti, mentre più di un cronista televisivo tentò di avvicinarlo, lui restò silenzioso, attento soltanto alla cerimonia e al dolore che sovrastava l’assemblea. Allora mi disse che “di Mino gli sarebbe mancato il pensiero che riusciva ad indicare la strada senza per questo pretendere di essere assoluto; quel suo modo di interpretare le ragioni della politica, che per lui non erano un’ipotesi, ma la conseguenza di una dedizione assoluta al bene comune”.
Ieri sera, ascoltando il suo accorato appello, ho ricordato quelle parole e le ho ritenute buone per oggi, per domani e per tutto il tempo necessario per superare la crisi.
LUCIANO COSTA