Chi scende e chi sale…

Elezioni il giorno dopo: ogni commento è lecito. Dire che riemerge il PD regala qualche emozione: vuol forse dire che le ragioni della politica (che questo partito sia il forziere in cui, grazie a padri nobili e a testimoni coraggiosi, hanno trovato domicilio e ascolto è riconosciuto da tanti se non da tutti) possono ancora avere cittadinanza? Significa che populismo e sovranismo vengono messi in soffitta? Indica la rivincita della Politica sulle scorribande dei politicanti di ventura? Forse sì, ma è meglio non farsi troppe illusioni.

Dire che i Cinque Stelle tornano da dove sono venuti, praticamente dal nulla, deprime gli illusi e inorgoglisce i cultori della democrazia rappresentativa; aggiungere che la Lega si sbrega (da qualche parte la scritta è ancora visibile) attorcigliandosi sugli equilibrismi del capo e sulla inconsistenza degli slogan, dimostra che per governare più che rompere serve costruire, serve parlare piuttosto che sparlare ed è utile ragionare invece sragionare; prendere atto che le destre più destre sono fuori dalla storia, che sono forse utili a movimentare i gruppuscoli ma non a fare politica, è leggere la realtà, che sarà pure malconcia ma non al punto di affidare il suo destino a qualche avventuriero(a) arroccato(a) a un passato che non può e non deve ritornare. Assegnare a Forza Italia e al suo capo il titolo di emergenti per aver conservato la Calabria, è come dare un brodino a un affamato…

Oltre i commenti c’è poi l’ufficialità. Matteo Salvini dice “abbiamo scelto i candidati troppo tardi. Per il prossimo giro decidiamo a novembre…”; Giuseppe Conte, che si aspettava ben altro, dice che “una cosa è sicura: mai con le destre”; Beppe Grillo, che non c’entra ma che vuole entrarci, afferma che “abbiamo fatto l’impossibile, ora facciamo il necessario”; Enrico Letta (forse l’unico a poter vantare qualche merito) fa sapere che “si battono le destre allargando il campo”; il Centrodestra si dichiara orfano del “federatore”, il ruolo che aveva Berlusconi e che ora, né Salvini né Meloni riescono a svolgere. I partiti della coalizione di Governo dicono di sentirsi “più vicini all’Europa, perché il voto al centrosinistra è un voto a Draghi”. Questo per dire che Draghi può continuare la corsa, soprattutto perché adesso nessuno più ha un interesse ad anticipare le elezioni politiche.

Al di là dei commenti resta indecifrabile e preoccupante l’astensionismo diffuso. “Ha vinto il partito dell’astensione” hanno titolato alcuni giornali. In effetti, le Amministrative 2021 si sono chiuse con un risultato clamoroso, anche se tutt’altro che inatteso: nelle grandi città (Roma, Milano, Napoli, Torino), per la prima volta nella storia i cittadini che non hanno votato sono maggioranza assoluta.

Il problema è che nell’epoca delle alleanze (nessun partito può più illudersi di vincere da solo) il tempo diventa un nemico, perché ciò che oggi è vero domani potrebbe non esserlo più. Basti pensare al centrodestra, che fino al 2018 viaggiava unito (con Berlusconi federatore) poi si è spaccato, con l’abbraccio della Lega al M5S nel primo Governo Conte, è sembrato ricompattarsi quando Conte si è alleato con il Pd e alla fine si è nuovamente diviso: Lega e Forza Italia da una parte, a sostegno di Marion Draghi (pur con tutte le incertezze e le contraddizioni di Salvini), Fratelli d’Italia dall’altra, con la Meloni orgogliosamente all’opposizione.

Al netto delle astensioni, il centrosinistra si è confermato a Milano, ha dominato a Napoli, si è confermato a Bologna, resta in corsa a Roma e proverà a vincere a Torino col ballottaggio. Il centrodestra ha vinto in Calabria, va al ballottaggio sia a Trieste che a Roma (in verità con scarse prospettive).

Questo il quadro della situazione. Resta un dubbio: come sarebbe andata a finire se tutti gli aventi diritto fossero andati alle urne?

Ai posteri l’ardua sentenzia.

LUCIANO COSTA

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