Morire sul lavoro: non è giusto, non è accettabile e neppure ammissibile. “Mai più…” si dice spesso quando si è costretti ad accompagnare un lavoratore al camposanto. “Mai più…” lo dicono anche i politici, che promettono sempre impegni e rigore per impedire che qualcuno debba e possa morire sul lavoro. Ricordo, tanti anni fa, quel ragazzo di quattordici anni che partito il mattino alle cinque dal paese diretto con le squadre dei cottimisti nei cantieri di Milano fu portato a casa chiuso in una bara. Era caduto dall’impalcatura, lui e il secchio di sabbia che stava trasportando, non aveva nessun permesso di lavoro e neppure quello straccio di libretto che allora lo avrebbe abilitato a stare in cantiere. In paese la notizia arrivò per telefono, l’unico telefono pubblico ospitato nel bar della piazza. Ricordo i genitori straziati dal dolore e noi che stavamo arroccati come allocchi sperando che non fosse vero. Anche allora sentii lo stesso ritornello: “Mai più… Non deve succedere mai più…”. Invece, il mio piccolo paese fu costretto negli anni a contare altri morti sul lavoro… Invece, in centinaia di altri paesi furono costretti a piangere i loro morti sul lavoro.
Penso a quel ragazzo di non ancora quattordicenne, morto nel suo primo giorno di lavoro, ogni volta che la cronaca racconta tragedie che colpiscono uomini e donne che lavorano. E ogni volta mi pongo la stessa domanda: era possibile evitare una nuova tragedia? La stessa domanda me la sono posta leggendo i risultati di un’indagine su malattie e infortuni sul lavoro condotta tra il 2000 e il 2016: due milioni di persone morte sul lavoro. Tante, tantissime. Così tante da rendere quasi abitudine fare i conti con l’incidente che le ha colpite.
“Tra i tanti rischi mortali che si possono correre sul posto di lavoro – ha scritto l’altro ieri un valente commentatore -, ce n’è uno sempre in agguato: quello di abituarsi. Abituarsi alle morti sul lavoro, alla “ennesima tragedia sul posto di lavoro”, come talvolta titolano gli stessi organi di informazione, come se fosse normale abituarsi al fatto che è possibile, quasi normale, perdere la vita mentre ci si guadagna da vivere”. Invece, il primo e in derogabile impegno dovrebbe essere quello di garantire la dignità del lavoro, affinché l’uomo non ne sia schiavo o vittima.
Purtroppo di vittime se ne contano tante nel mondo: basta leggere il primo rapporto congiunto pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). Si tratta di stime sulle malattie e gli infortuni sul lavoro riscontrati in 183 Paesi del mondo. E solo per il 2016, si contano quasi 2 milioni di morti premature (1,9 milioni per la precisione) che si sarebbero potute prevenire. Statistiche drammatiche che stridono con i diciassette Obiettivi per lo sviluppo sostenibile del 2030, tra i quali ci sono anche la salute e il benessere (Sdg 3) e il lavoro dignitoso (Sdg 8).
Il rapporto, che analizza un arco temporale che va dal 2000 al 2016, evidenzia che la maggior parte dei decessi legati al lavoro è dovuta a malattie respiratorie e cardiovascolari. Nel complesso, le malattie non trasmissibili rappresentano l’81 per cento dei decessi, con la broncopneumopatia cronica ostruttiva (450mila decessi), l’ictus (400mila) e la cardiopatia ischemica (350mila) come cause principali. Gli infortuni sul lavoro, invece, rappresentano il 19 per cento dei decessi (360mila). Tra i fattori di rischio professionale esaminati dallo studio, ci sono l’esposizione a lunghe ore di lavoro (circa 750mila morti), all’inquinamento atmosferico (450mila decessi), nonché al rumore e agli agenti cancerogeni. Le malattie e gli infortuni legati al lavoro – evidenzia ancora il rapporto – non hanno ricadute solo sulla vita delle singole persone, bensì anche sull’intero sistema sociale, perché “affaticano i sistemi sanitari, frenano la produttività e possono avere un impatto devastante sui redditi familiari”.
Certo, qualche buona notizia c’è: dallo studio si evince che, tra il 2000 e il 2016, a livello globale, il numero di morti sul lavoro è diminuito del 14 per cento. Un miglioramento dovuto ad una maggiore attenzione alla salute e alla sicurezza sul posto di lavoro. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: i decessi per malattie cardiache e ictus associati all’esposizione a lunghe ore di lavoro sono aumentati rispettivamente del 41 e del 19 per cento. E si tratta di “un fattore di rischio psicosociale relativamente nuovo” che tende ad aumentare sempre più.
Ci sono poi altre specifiche da tenere ben presente, tra cui il dato geografico: secondo il rapporto, infatti, “un numero sproporzionato di decessi legati al lavoro si verifica tra i lavoratori del sud-est asiatico e del Pacifico occidentale”. L’India, ad esempio, è uno dei Paesi più toccati dal problema degli orari lavorativi troppo lunghi con 12 morti su 100mila persone. L’Italia, invece, ha il tasso di mortalità per cancro alla laringe associato all’esposizione all’amianto tra i più alti nel mondo, pari a 0,6 casi ogni 100mila abitanti. Segue la Francia con 0,4 casi ogni 100mila abitanti. In generale, le statistiche rilevano che la morte sul lavoro colpisce di più gli uomini e le persone di età superiore ai 54 anni.
In totale, sono diciannove i fattori di rischio esaminati dal rapporto ed ognuno di essi è associato ad una serie di azioni preventive che si possono mettere in atto. Ad esempio: per prevenire l’esposizione a lunghi orari di lavoro, si può stilare un accordo sui limiti orari massimi consentiti; oppure per ridurre l’esposizione all’inquinamento atmosferico sul posto di lavoro, si raccomandano il controllo delle polveri, la ventilazione e l’uso dei dispositivi di protezione personale. In sostanza, lo studio sottolinea la necessità di “luoghi di lavoro più sani, più sicuri, più resilienti e socialmente equi”: tutti obiettivi raggiungibili attraverso “il ruolo centrale della promozione della salute e dei servizi alla salute sul lavoro”.
“È scioccante che così tante persone vengano letteralmente uccise dal loro lavoro – ha detto il direttore generale dell’Oms -. Il nostro rapporto è un campanello d’allarme per i Paesi e le aziende, affinché migliorino e proteggano la salute e la sicurezza dei lavoratori, onorando i loro impegni a fornire una copertura universale dei servizi di sicurezza e salute sul lavoro”. Maria Neira, direttrice del dipartimento Ambiente, cambiamento climatico e salute dell’Oms, ha detto che “si poteva prevenire, si doveva impedire…”. Parole, come quelle già sentite, che dicevano “mai più…”. A quando, invece, un’azione globale, planetaria, affinché nessun lavoratore sia lasciato indietro? “I governi, i datori di lavoro e i lavoratori – ha detto il direttore generale dell’Ilo – possono tutti intraprendere azioni per ridurre l’esposizione ai fattori di rischio sul posto di lavoro, anche introducendo cambiamenti nei modelli e nei sistemi occupazionali”.
Potrebbero… Ma quando lo faranno?
LUCIANO COSTA