Chi ha qualche anno in più di quelli della spensierata gioventù, forse ricorda come eravamo quando la guerra in Vietnam entrava in casa portando il frastuono delle bombe, i morti, le distruzioni e le grida che invocavano “via gli americani”. Forse, ma solo forse, ricordano: più facile è mettere tutto all’archivio e così relegare la memoria in un sonno liberatorio. Ma poi, dopo il Vietnam, quanti altri Vietnam si sono succeduti, quanti altri morti sono stati contati, quante guerre sono state dichiarate e combattute, quante volte le Nazioni Unite hanno gridato senza ottenere risposta la necessità della pace? Eravamo, all’epoca del Vietnam, coscienti che nessun popolo poteva essere lasciato al suo destino… Allora le piazze si affollavano di gente che chiedeva la fine della guerra e delle guerre e ogni volta, nei cortei si alzava il solito grido – “via gli americani” – e qualcuno stracciava le loro bandiere mentre altri assistevano forse consapevoli o forse inconsapevoli. Allora la sinistra dei “duri e puri” era padrona dei cortei e i comunisti, ancora immersi nell’utopia del potere al popolo da conquistare al grido di “avanti, popolo alla riscossa, bandiera rossa trionferà”, dominava la scena guardando al modello Sovietico…
Poi, la fine dell’impero sovietico, la perestrojka, la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo, l’avvento di libertà e democrazia come modelli alla portata di tutti e a beneficio di tutti hanno cambiato lo scenario. Allora i comunisti si divisero in specie e sottospecie, in comunisti inesistenti fuori ma esistenti dentro, in sinistra democratica e sinistra sognante, in sinistra moderata o estrema, senza via di mezzo. In quel muoversi e star fermi, avanzò il terrorismo: quello delle brigate rosse e nere, dei bombaroli, degli infiltrati, dei rivoluzionari generici e dei talebani addestrati e pagati per seminare terrore e morte.
Così si materializzò l’immane tragedia dell’11 settembre 2001, quando Osama bin Laden, capo dei talebani, dichiarò guerra all’America dirottando aerei e facendoli schiantare contro le Torri Gemelle a New York, contro il Pentagono a Washington e, di fatto, contro tutto l’occidente. Quel giorno l’America contò tremila morti innocenti. Quel giorno l’America decise che il crimine ordito da Osama bin Laden e attuato dai suoi terroristi non poteva restare impunito. Allora incominciò la terribile avventura degli americani in Afghanistan per snidare i terroristi e il loro capo. Gli americani, pagando un prezzo altissimo, nel maggio 2011 catturarono e giustiziarono il sanguinario Osama bin Laden. Da quel momento l’Afghanistan doveva prepararsi a vivere di democrazia e in piena libertà. Doveva… Invece, di nuovo terrorismo di vendetta, infiltrati in cerca di potere, talebani che di nuovo imponevano la loro visione di mondo… L’America, questa volta senza aspettare che dalla piazza si levasse il solito grido di “via gli americani”, annunciò il ritiro dall’Afghanistan… Da qual momento i talebani alzarono il tiro, imposero la loro assurda legge, misero a ferro e fuoco villaggi e città, uccisero innocenti, se la presero con donne e bambine, avanzarono, conquistarono Kabul, la capitale…
Il resto è davanti agli occhi di tutti.
Ma come è potuto accadere che un Paese a lungo protetto dai aiuti targati America cedesse il suo futuro nelle mani dei talebani? Ibraheem Bahiss, esperto di questioni afghane all’International Crisis Group, per spiegare quali retroscena siano andati profilandosi dietro al gigantesco e drammatico domino che ha travolto, una dopo l’altra, le maggiori città afghane, lasciando dietro di sé civili atterriti, intrappolati o in fuga, parla di soldati afghani, già fiaccati da anni di corruzione e salari non pagati, demoralizzati e incapaci di reagire. Però, l’esperto non concorda con chi attribuisce il collasso delle città interamente al ritiro. “I talebani – dice – hanno registrato salde conquiste sin dal 2014, quando hanno consolidato il controllo di molte aree rurali, relegando le forze di Kabul in qualche immobile nel centro di distretti che il governo diceva di controllare. Gli Usa parlavano di stallo, ma non era così”. Poi, in maggio, miliziani fondamentalisti hanno usato una nuova strategia iniziando “a offrire accordi di resa alle guarnigioni governative isolate, in cambio di lasciapassare, vie di fuga sicure. Nuove conquiste, dunque, senza combattere. Da fine giugno si è aperto un fronte molteplice, attacchi contro diversi capoluoghi di provincia. E le forze di sicurezza speciali ad agosto non sono state più in grado di rispondere ad ogni singolo attacco, con il risultato che le forze locali sono state lasciate sole a combattere per loro stesse”.
Diverse le responsabilità accumulate. Innanzitutto quelle del presidente Ghani “la cui legittimità politica si è andata erodendo nel tempo, soprattutto per la corruzione endemica, poi quelle di un Governo pressoché assente mentre i talebani avevano sufficiente coesione per sedersi a trattare e sufficiente unità nella catena di comando per una campagna militare. In questo assoluto disordine a partire dal 2020, ha spiegato l’esperto “i talebani si sono riposizionati volgendo lo sguardo verso Cina, Iran, Pakistan puntando a una legittimazione regionale, se quella internazionale non arriverà, cercando un modello basato sugli affari e sugli investimenti da attirare nel Paese… Se però loro guardano a Est – questa l’amara conclusione formulata dall’esperto – la popolazione in fuga si dirige a Ovest, verso l’Europa, che si troverà ad affrontare un vero dilemma: attrezzarsi per l’arrivo di nuovi migranti ai propri confini o scendere a patti per prevenire l’ondata di rifugiati, correndo il rischio di legittimare un governo radicale come quello talebani?”.
LUCIANO COSTA