Nell’ultimo Domenicale (14.11.2021) si diceva che era inimmaginabile un’Europa grande, ricca, custode di civiltà e di valori però incapace di accogliere e proteggere duemila disperati provenienti da paesi in cui morire è certo più facile che vivere. Ponevo anche la questione dei valori di cui si alimenta l’umanesimo globale basato sull’idea di un’Europa Unita e solidale, belli e importanti ma disattesi, addirittura calpestati dalla logica di chi vede come rimedio un muro spesso e invalicabile. Ho ricevuto due consensi, due sfottò, due risate, due inviti a lasciar perdere e due etichette di illuso. Poi, ieri, ho letto quel che Sergio Mattarella ha detto all’Università di Siena a proposito di Europa pilatesca, che gira la testa dall’altra parte per non vedere, che rinnega i valori e cancella i principi su cui ha costruito la sua unità mi sono sentito in buona compagnia: il Presidente e il testardo autore del Domenicale: due illusi! Mattarella si domanda che fine abbia fatto il nostro senso di umanità, come possiamo fingere di non sentire le grida di aiuto, da dove venga questa ipocrisia che acceca anche le migliori intenzioni; il domenicale scrive che per sentire il grido dei disperati è necessario sconfiggere “l’epidemia dell’ignoranza”, quella che dispone di mille e mille informazioni, ma che continua a non sapere che cosa succede.
Gaetano Vallini ha premesso alla sua riflessione sui migranti accatastati nel bosco di confine senza altra prospettiva se non quella di vedersi respinti, una domanda inquietante: “Quanto “dista” l’Europa dal confine con la Belarus (Bielorussia) divenuto drammaticamente il nuovo fulcro della crisi migratoria?”. La risposta è stata: “Apparentemente qualche metro, ma in realtà uno spazio incolmabile, e non solo per i migranti che tentano di superarlo. Poi l’amaro commento: “È lo spazio che segna il divario etico che da tempo sembra accompagnare l’azione politica europea quando si affronta il problema migratorio; uno spazio piccolo, sul quale però si gioca parte della credibilità dell’Unione”.
Dal dovere di dare credibilità alle azioni ai gesti sono scaturite le parole forse più dure e coraggiose. “In diverse parti dell’Unione europea – ha detto il Presidente – si è visto un fenomeno di strano disallineamento, di incoerenza, di contraddittorietà, tra i principi dell’Unione, tra le solenni affermazioni di solidarietà nei confronti dei popoli che perdono la libertà e il rifiuto di accoglierli. Singolare atteggiamento, pensando all’atteggiamento e ai propositi dei fondatori dell’Unione europea che individuarono e indicarono orizzonti vasti, importanti, pur consapevoli delle difficoltà per raggiungerli, ma che affrontarono con coraggio e determinazione”. Per chiarezza e perché fosse ben inteso il suo pensiero, il presidente Mattarella ha aggiunto poi alcune sottolineature: «Vi sono delle condizioni che sono sconcertanti. E sconcertante è quanto avviene in più luoghi ai confini dell’Unione. È sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tener conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione».
Purtroppo, le enunciazioni di principio s’infrangono da tempo contro l’impossibilità di trovare una linea comune che metta d’accordo le varie sensibilità. E quanto sta accadendo al confine tra Polonia e Bielorussia “è solo l’ultima vicenda che evidenzia purtroppo le contraddizioni di una politica incapace di mettere insieme efficacemente le esigenze di sicurezza degli stati e le tutele e i diritti di cui dovrebbero godere profughi e migranti”. È avvenuto lungo la rotta mediterranea, con le divisioni su chi e come pattugliare il mare, su a chi spettasse il compito di soccorrere, su chi dovesse farsi carico delle persone salvate, si ripete ora sulla rotta balcanica. Emerge, purtroppo, un uso politico dei migranti, ingannati con la falsa promessa di poter arrivare nell’Ue, diventati arma di ricatto, esercito disarmato e inconsapevole di una guerra di cui sono doppiamente vittime.
“Come nelle acque del Mediterraneo – scrive allora Gaetano Vallini -, anche su quella rotta si muore. Di freddo. L’inverno lungo quel confine arriva prima. Le notti sono di ghiaccio. Tende, coperte, sacchi a pelo non bastano. E le vittime sarebbero già almeno una decina. Le “luci verdi” della speranza, le uniche a dare testimonianza di umanità su quel pezzo di terra segnato da reticolati e filo spinato, dovrebbero illuminare non solo il cammino dei tanti disperati usati come pedine di un cinico gioco politico, ma anche i palazzi di chi dovrebbe assumersi la responsabilità di far coincidere le enunciazioni di principio e le pubbliche affermazioni di solidarietà con i fatti concreti. Perché si tratta della vita di diverse centinaia di persone”.
E tutto questo è Europa!
LUCIANO COSTA
Essere Europa…
Lui forse c’entra poco con l’Europa, ma sicuramente è stato un europeista convinto, di quelli che hanno messo cuore, pensieri e impegni per conquistare quella libertà da cui era destinata a nascere l’Europa. Costui si chiamava Giacomo Vender- scarpe grosse, cervello fino, mani sempre pronte a stringere mani, cuore aperto e pronto a far posto ai poveri, ai perseguitati e ai disperati – e diventò prete per servire, prima i giovani dell’oratorio, poi la bella gioventù mandata al fronte e dopo quella che sognava libertà opponendosi al regime fascista. E quando Libertà trovò casa, lui si caricò sulle spalle il destino degli sfrattati obbligati dal regime a vivere sulla riva del Mella. In quella veste ha consolato gli afflitti, aiutato a creare lavoro per tanti, costruito case, regalato sorrisi e speranza. Don Giacomo si incamminò verso la patria riservata ai Giusti un giorno di giugno del 1974. Da allora sono passati tanti anni, ma non è venuto meno il ricordo e attuale rimane il suo invito (è racchiuso in due parole che dicono “Animo, Animo!” e che invitano ad avere coraggio e a lottare per dare dignità e assicurare pari opportunità alla gente. E non è forse compito dell’Europa Unita lottare per dare dignità e assicurare pari opportunità alla gente?
Così, oggi alle ore 18, nel salone Vanvitelliano di Palazzo Loggia, Brescia ricorda don Giacomo Vender, “figura di prete – commentò un giorno lontano lo storico e giornalista don Antonio Fappani – con pochi uguali e con tanti che per essere pastori vivi e autentici dovrebbero andare a lezione da lui”. Lo farà col riguardo dovuto a chi tanto ha dato senza mai pretendere neppure un grazie, mettendo nel ricordo la forza delle sue idee, la sua schietta testimonianza di amore per i più deboli, la sua fiducia illimitata nelle persone, la sua capacità di costruire futuro dove c’era soltanto il deserto… Lo farà nel giorno che ricorda ai bresciani e a tutti coloro che mantengono viva la memoria e l’affetto per chi tanto ha dato alla città e alla sua gente, che don Giacomo, il mattino del 17 novembre 1946, esattamente settantacinque anni fa, dopo che il Vescovo gli aveva affidato il compito di assistere i baraccati della riva destra del Mella, alle 10 del mattino, in bicicletta, accompagnato da alcuni giovani del suo oratorio e accolto a Ponte Crotte da una delegazione della comunità, faceva il suo ingresso come cappellano degli sfrattati dal regime…
Ricorderanno don Giacomo Vender, morto il 28 giugno 1974 dopo aver messo “tutto se stesso al servizio della città e della gente”, il sindaco Emilio Del Bono, il teologo monsignor Giacomo Canobbio, il suo “parrocchiano” Giuseppe Nardoni e Luciano Costa, autore del libro (“Animo Animo!”, edito da Arti) che anima il ricordo e che racconta il Sacerdote, il Cappellano militare, il Ribelle per amore, il Prete degli sfrattati, il Parroco e il Cittadino esemplare. Poi, ricordando don Giacomo e il suo tempo vissuto tra l’argine del Mella e i campi destinati a diventare quartiere e parrocchia di Santo Spirito, il pensiero, sollecitato dalle date scandite dal calendario (1927: avvio del trasferimento forzato sull’argine del Mella dei residenti nell’antico quartiere delle Pescherie, allora cuore della città; 1929: inizio dei lavorio per la costruzione di piazza della Vittoria; 1 novembre 1932: Benito Mussolini, il duce, arriva a Brescia per inaugurare la nuova piazza e rendere omaggio all’Era fascista, una statua bruttina, che i bresciani chiameranno subito Bigio) abbraccerà la storia, scritta ma non ancora conclusa, degli sfrattati del regime, niente più che “sbandi”, che tradotto significa fuori dal circuito della normalità.
Scrive l’autore del libro che in uno dei primi approcci avuti con don Giacomo, rigorosamente avvenuti tra le baracche del campo degli sfrattati, in modo che le parole, diceva il prete «assomiglino al vissuto reale piuttosto che alla filosofia narrante», gli chiese come incominciò l’avventura e di quali risultati si fosse via via colorata. «Dato che il vescovo aveva deciso che io lasciassi la parrocchia per dedicarmi agli sfrattati – gli rispose il prete –, incominciò per ubbidienza e proseguì per incoscienza: l’ubbidienza era ancora una virtù; l’incoscienza dipendeva dalle idee che avevo maturato e che mi portavano a credere che niente era impossibile se fatto per il bene di un prossimo sconosciuto ma fratello, di chi era costretto a vivere mendicando piuttosto che grazie al suo lavoro, se fatto secondo i parametri evangelici, se messo in conto non come vanto da esibire ma come norma per assicurare a ciascuno la giusta dignità».
Dopo tanti anni, la giusta dignità dovuta ai tanti che hanno patito l’asprezza del vivere sull’argine potrebbe ora concretizzarsi attraverso le parole ufficiali: quelle che chiedendo scusa per ciò che è avvenuto assicurano gratitudine a coloro che di quella tragedia sono stati vittime e testimoni.
(Nota pubblicata il 16 novembre 2021 da “Bresciaoggi”)