Si chiama don Mattia e come tanti suoi colleghi e tantissimi di noi che credono possibile un mondo di uguali, non smette di stare dalla parte di chi su barconi affronta mari burrascosi e nemici invisibili pronti a condannarli. Per costoro don Mattia vorrebbe accoglienza e un posto in cui possano ricominciare a vivere. Per farlo ha chiaramente detto che nessuno deve essere ricacciato in dietro; per questo è stato minacciato pesantemente; per questo un giudice, a cui è stato chiesto di provvedere alla sua protezione, ha detto no, perché un prete che alza la voce è cosciente del rischio che corre. Questo modo di procedere, non bello e non condivisibile se non per azzeccagarbugli che all’impegno solidale antepongono la logica del rischio calcolato (fare il prete è un rischio calcolato, dice qualcuno) sta però suscitando polemiche. Insomma, la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Modena dell’inchiesta sulle minacce nei confronti di don Mattia Ferrari, cappellano della ong Mediterranea Saving Humans, provenienti da un portavoce della mafia libica legato ai servizi segreti di diversi Paesi, che secondo la Procura non sarebbero di rilievo penale, non piace e, soprattutto, più che un principio di giustizia appare un modo facile per disimpegnarsi.
Don Mattia è da tempo sotto “radiosorveglianza” decisa dal Comitato provinciale per la sicurezza dei cittadini, proprio sulla base di quelle minacce. Nel documento del pubblico ministero di Modena si sottolinea che “se il prete esercita in questo modo, diverso dal magistero tradizionale”, deve in un certo senso aspettarsi reazione contrarie e fra queste di essere bersagliato. In un passaggio del testo, si suggerisce che l’esposizione sui social network naturalmente provoca reazioni, specie se “chi porta il suo impegno umanitario (e latamente politico) sul terreno dei social o comunque del pubblico palco – ben diverso dagli ambiti tradizionali, riservati e silenziosi, di estrinsecazione del mandato pastorale – lo fa propagando le sue opere con toni legittimamente decisi e netti”.
Interrogato sulla vicenda, il cardinale di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi ha detto: “Devo leggere la motivazione, ma credo che sia importante che se ci sono dei motivi di preoccupazione ulteriore si continui a verificare sulle responsabilità libiche e sulle responsabilità di coloro che minacciavano e che hanno minacciato. Al di là di qualsiasi provvedimento – ha aggiunto – è importante che ci sia un’attenzione della giustizia perché coloro che detengono o organizzano gli scafisti siano identificati e perseguiti. Don Mattia lo conosco, è una persona che ha sempre avuto molta attenzione per il problema di chi muore in mare e anche di chi viene trattato come un animale in quelli che, come ha più volte detto il Papa, sono dei veri e propri campi di concentramento e di violenza”.
Don Mattia Ferrari, prete trentenne, il 9 maggio 2019 era con i volontari sulla Mare Jonio, la nave della piattaforma di Mediterranea (finora ha soccorso 680 naufraghi), nel tratto di mare tra la Sicilia e la Libia, quando viene avvistato un gommone in avaria con trenta persone migranti che, come avrebbero poi raccontato, provenivano dall’inferno. Una storia che è confluita nel libro “Pescatori di uomini”, scritto con l’inviato di Avvenire Nello Scavo. Sulla decisione del pubblico ministero don Mattia ha detto: “Dispiace, non tanto per me, quanto per la vera questione che sappiamo essere quella delle persone migranti che scappano dalla Libia. Le minacce sono legate al fatto che noi siamo accanto a queste persone. La mafia libica cerca di eliminare noi per lasciare soli i protagonisti, che sono i migranti. Se non si indaga sulla mafia libica non riusciremo ad andare a fondo e a fare una grande operazione di verità e di giustizia, presupposto indispensabile perché finalmente si affermi la fraternità e perché il Mediterraneo sia finalmente un mare di pace”. Su coloro che lucrano sulla tragedia dei disperati del mare, il cappellano è chiarissimo: “Devono essere fermati e i loro perseguitati devono sempre essere salvati. La società civile che opera in mare è un grandissimo disturbo per la mafia libica che lucra tantissimo sui respingimenti e che desidera proprio eliminare le ong di soccorso. Infangare le ong è in questo momento il favore più grande che possiamo fare alla mafia libica. Per questo è gravissima la campagna che viene fatta. perché indirettamente finisce per far contenta la mafia libica. Oltretutto non c’è stata finora nessuna indagine che abbia detto che la mafia libica e le ong collaborano. Mai nessuna dimostrazione di ciò”.
Maurizio Patriciello ha scritto ieri sui canali di Vatican News che tutti dovremmo aiutare e ancor di più coloro che si dicono cristiani. “I cristiani infatti sono tenuti a essere discreti e silenziosi quando si tratta di aiutare le singole persone, ma anche a essere fermi e risoluti quando si fanno voce dei diritti dei poveri. Povero è chi non ha da mangiare, chi è solo, disperato, malato, abbandonato. Poveri sono i fratelli e le sorelle terrorizzati, mutilati, uccisi dalle bombe stupide e vigliacche lanciate da uomini intelligenti, creati a immagine di Dio. Poveri, poverissimi, sono coloro che sui barconi rischiano e perdono la vita in cerca di un angolo di mondo dove montare la propria tenda. La Terra è «casa comune» di tutti. Possiamo lasciarli alla deriva? C’è chi dice “sì”. E c’è chi vorrebbe che non se ne parlasse più: le immagini dei naufraghi rischiano di rovinarci finanche il pranzo di Natale. Ma c’è – grazie a Dio – chi ci mette testa e cuore e magari decide di dedicare loro anche sé stesso”.
Tra questi, don Mattia Ferrari, cappellano di “Mediterranea saving humans”, minacciato online dal “portavoce della mafia libica”. Per questo merita rispetto, aiuto e amicizia vera.
LUCIANO COSTA