Sei minuti di applausi: lunghi-lunghissimi-inarrestabili-liberatori-sinceri e liberi di dire al Capo dello Stato Sergio Mattarella “grazie per quello che hai fatto, ma non smettere proprio adesso…”. La piazza che ospitava quel momento così particolare era “La Scala” di Milano, tempio della lirica, ieri affollata per la prima, concomitante come sempre con la festa di Sant’Ambrogio. “Tutti in piedi per Mattarella – informava la nota dell’agenzia di stampa -, un lungo applauso che non termina più, sei lunghissimi minuti di ovazioni, telefonini al vento e applausi ha accolto poco fa alla Scala il Capo dello Stato al suo ultimo appuntamento con l’apertura della stagione scaligera. Bis… bis… gli grida il pubblico invitandolo a proseguire il suo mandato. Un plebiscito che commuove il Presidente che sorride felice e saluta dal Palco Reale del teatro milanese. E quando il maestro Chailly, direttore dell’orchestra, in una platea attorniata da 10mila rose e tremila orchidee, intona finalmente l’Inno d’Italia, questo assume un sapore ancora più bello e importante, quello di una risposta dal sapore risorgimentale alla battaglia contro il Covid. Battaglia che l’anno scorso trasformò la Prima in un galà a porte chiuse”. Non ho dimestichezza con la lirica, ma ciò non significa che sprechi occasione per esserci quando s’annuncia portando con sé orchestre, maestri, registi, cantanti e cori di larghissimo e riconosciuto pregio. Ieri era una di quelle occasioni, ma, lo so bene, “La Scala”, quando è sant’Ambrogio, è inavvicinabile. Però ho goduto ugualmente l’opera inaugurale stando davanti al televisore, palcoscenico straordinario quando ai pettegolezzi sostituisce cultura vera e musica eccelsa, prima a occhi aperti (per vedere lo splendore del castello in cui dimora il truce Macbeth, generale al servizio del re), poi a occhi chiusi (per godere la sublime musica di Giuseppe senza dover rincorre le scene innovative, per altro pregevoli, inventate da una regia che procedeva in maniera inversamente proporzionale ai soliti gusti del popolo dei melomani).
Ascoltavo la musica cercando di costruirle intorno la solita morale della favola, quella che dal peggio trova sempre il modo di cavare il meglio. Ma era davvero possibile cavare qualcosa di buono da una trama così intricata e gravata da sogni di potere, da potere da conquistare, da potere da gestire, da potere che dovrebbe essere ripensato e poi assegnato non al più armato e forte, ma al migliore? Forse sì, forse era possibile. L’opera, infatti, racconta di Macbeth, generale dell’esercito scozzese, al quale le streghe della foresta intente a festeggiare si inchinano e gli preannunciano che sarebbe diventato il futuro re. Turbato non poco, informa la moglie, avida la sua parte, la quale non trova di meglio da fare se non incitarlo a compiere il fato, tramando per uccidere il re. Cosa che fa, salvo poi lasciarsi prendere dal panico e consegnare il pugnale alla donna che subdolamente lo nasconderà nella stalla in modo che la colpa ricada sugli stallieri del re. Macbeth diventa Re. Ma ancora non basta. Così, Lady Macbeth, temendo per il futuro, lo convince a uccidere un altro generale. Il re esegue, ma da lì in avanti dovrà fare i conti il fantasma dell’amico che lo osserva, per liberarsi del quale chiede nuovamente consiglio alle streghe della foresta, che non hanno dubbi: “Tu, Macbeth, rimarrai invincibile fino a quando la foresta non si muoverà contro di te”. Il che avviene quando l’opera già volge al termine lasciando la scena ai nuovi arrivati e alla foresta che si sta muovendo. E a quel punto sarà impossibile vincere…
“Macbeth è morto. Ha preso un ascensore per l’inferno. La tirannia è sconfitta. Il popolo ha un nuovo re. Ma resta dietro una grata. La gabbia del potere, di certo potere che perpetua se stesso e mette a tacere il popolo”. Così scrive il critico Pierachillle Dolfini, ed è difficile non essere d’accordo con lui, soprattutto quando, per chiudere l’amaro cerchio, lascia spazio a una tenue speranza che dice: “Tra le sbarre si apre una porta, uno spiraglio di luce sul futuro; ne escono due ragazzi: cortocircuito tra finzione e realtà, perché quelle sbarre…”. Forse sono quelle di ieri, o forse quelle che il tempo non ha mai abbattuto.
A occhi aperti ho visto alzarsi il sipario per mostrare “un bosco popolato di cadaveri, uno è riverso sul cofano dell’auto di Macbeth…”. Il regista racconta la storia (che Verdi ha preso da Shakespeare) come in un videogame che proietta in un mondo futuribile, ma che è anche pieno di tracce del passato. E’ uno spettacolo frenetico, che apprezzo ma non capisco, che mi spinge a chiudere gli occhi per ascoltare soltanto musica e canto. Però, mi sono perso la lezione che stava dentro, sopra e fuori l’opera. Leggo infatti che si trattava di “una visione politica, che senza fare nomi e cognomi (ma la Scottish tower dove abitano i coniugi Macbeth non può non ammiccare Alla residenza del fu presidente Trump) mette in guardia dalle possibili derive del potere in uno spettacolo dalla cifra visiva moderna, di forte impatto. Ma a ben vedere tradizionale, tradizionalissimo perché in scena avviene tutto quello che deve avvenire in Macbeth: c’è il temporale che accompagna l’apparizione delle streghe, c’è il brindisi con Macbeth che di fronte agli invitati alla festa vede lo spettro di Banco (e la Lady lo schiaffeggia per riportalo alla realtà), ci sono le profezie (prima le danze, pantomima tra sogno e incubo, poi una seduta spiritica con tanto di tavolino che si muove) e la sfilata dei re e c’è la battaglia finale raccontata come se fosse la fine del mondo. Poi resta solo un cielo. Rosso. E una porta fatta di sbarre si spalanca sul futuro”.
Alla fine ancora applausi e fischi (alcuni) per l’azzardata scena. E ancora solo applausi convinti e convinti bis al Presidente della Repubblica, quel Sergio Mattarella che ha tutto il diritto di andare, ma anche quello di restare. Così, per il bene degli italiani e per concludere al meglio un’altra opera: ridare fiducia e costruire buon futuro per tutti.
LUCIANO COSTA