A vederlo così gracile e gentile veniva da pensare che Franco Battiato, morto ieri dopo aver partito la sua parte di dolori, non fosse adatto a stare in quel frastuono di voci e musiche che formavano l’anima del concerto. Ma bastava si avvicinasse al microfono e intonasse la canzone perché tutti lasciassero spazio alle parole, come quelle che invitando a cercare qualcosa – magari “un centro di gravità permanente… -, di fatto imponevano di cercare una sola cosa: l’infinito. Sì, proprio quell’infinito cielo alle cui soglie fiorivano oleandri, fichi e mille altri fiori e frutti.
Non so se Franco Battiato avesse fede in Dio o anche solo briciole di visione assoluta in grado di assicurargli sufficiente speranza per andare oltre le umane cose. So che era un “gentile”, cioè rispettoso di sé e degli altri; che immaginava cieli e terre nuovi abitati da persone variopinte e variamente interessate al Cristo andato a morire sulla croce e ai tanti poveri cristi ancora in circolazione sulla desolata terra; che sognava una nuvola su cui posarsi e posare la sua musica; che amava la gente in quanto gente e popolo e non, come invece è sempre facile pensare quando si riduce la musica a mero fatto commerciale, perché “chissà forse non si sa mai” poteva essere fonte di sostentamento e rendita…
Mi capitò, dopo una serata a teatro in compagnia delle sue canzoni e della sua visione di umanità planetaria, di incrociare Franco mentre salutava gli amici per dirigersi verso l’automobile che l’avrebbe portato all’appuntamento suggestivo. Non c’era tempo per intavolare riflessioni e neppure per cercare risposte alle tante domande suscitate dalle sue canzoni. Allora gli chiesi soltanto se nel suo mondo, quello che cercava “un centro di gravità permanente” c’era posto per sconosciuti viandanti in cerca delle medesime cose. Mi rispose che c’era posto “per tutti quelli che cercando l’infinito non si fermano a contemplare l’in senza preoccuparsi di quel finito che lo completa e che ammonisce sui rischi che porta con sé…”.
Allora mi fu difficile accostare la risposta a qualcosa che sembrasse men che campato in aria. Più avanti negli anni, senza per altro avere ulteriori occasioni per vivere una serata a teatro con le sue parole e la sua musica, di fronte all’immagine televisiva che lo rendeva commestibile ai più, compresi che il segreto era nascosto nelle parole pronunciate e cantate. Adesso che mi tocca salutarlo già proiettato in un al di là senza confini, rileggo la canzone che più di tutte ha condito i miei giorni (quella intitolata “Cerco un centro di gravità permanente”, insieme di mistero e di verità) e vedo scorrere il suo e mio mondo, un tempo che in settantasei anni ha visto il bene, il male, la vita, la morte, il pressapochismo, il doppiogiochismo, l’avidità, l’interesse, la generosità, la guerra, la pace e poi ancora la guerra, la pace e l’odio tra uomini e donne uguali ma incapaci di vedersi uguali… La ricordate? L’avete mai letta restando accovacciati nel silenzio della sera usandola come laica preghiera? Forse sì o forse no. Nel dubbio vi propongo di leggerla un’altra volta, omaggio all’artista che se n’è andato.
Incomincia raccontando di “una vecchia bretone, con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù” di “capitani coraggiosi, furbi contrabbandieri macedoni, Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”; prosegue dicendo “cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente…, semplicemente perché “avrei bisogno di…”; rammenta poeticamente che “per le strade di Pechino erano giorni di maggio” e che “tra noi si scherzava a raccogliere ortiche”, ma anche, meno poeticamente, quel che non garbava e che gli faceva dire “non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese, neanche la nera africana”, soprattutto perché “cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente. E avrei bisogno di…” trovarlo e assaporarlo quel centro, “over and over again”, cioè ancora, ancora, ancora…
Ricordando Franco Battiato, sognatore senza fine, Massimo Granieri, per sottolineare quel suo proiettarsi continuo alla ricerca di infinito, ha ricordato un verso che dice “peccato che io non sappia volare. Ma le oscure cadute nel buio mi hanno insegnato a risalire. Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati”. Voleva certamente confermare che l’amico e maestro di parole e musica “aveva la percezione del divino e della sua eterna assenza”. A conclusione della Messa Arcaica, musicata nel 1993 in occasione della celebrazione ad Assisi della Giornata della Pace indetta dalle Nazioni Unite, come alimento del desiderio e della fatica di conoscere la Verità, Franco Battiato racchiuse in torneremo ancora, un messaggio che non smette di essere attuale. Diceva: “Molte sono le vie, ma una sola quella che conduce alla verità. Finché non saremo liberi, torneremo ancora”.
Resta il tempo per un saluto, per dirgli “caro Franco, ti sia lieve la terra che ti ricopre e felice il cielo che ti accoglie”; anche per ripetergli “…e ti vengo a cercare, anche solo per vederti o parlare, con la scusa di doverti parlare, perché in te vedo le mie radici…” e così “cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male, essere un’immagine divina di questa realtà…”. Come dice il saggio, il cielo è di tutti. Ma oso pensare che un posto d’eccellenza, in quel cielo, sia riservato ai sognatori senza fine.
LUCIANO COSTA