Due storie di lavoro, di lavoro bresciano: una è racchiusa in una pizzeria, una semplice ma generosa pizzeria; l’altra si dipana tra le corsie di grandi ospedali dove un medico che a Brescia ha lasciato segni importanti ha scritto pagine di medicina e di speranza. Raccontarle oggi, giorno che celebra il Lavoro (festa internazionale di tutti e per tutti), queste storie aggiungono valore al già grande valore del lavoro. In più, così semplici e così educanti, le due storie mettono in secondo piano le polemiche imbastite attorno alle modalità di attuazione e testimonianza della festa e ai mezzucci usati per far sembrare bella e unica la festa riservano una certa e obbligatoria distanza. La prima storia è quella di Ciro, pizzaiolo arrivato a Brescia dalla provincia di Napoli, e la racconta Roberta Barbi; la seconda storia è quella del professor Ottavio Alfieri, bergamasco d’origine ma bresciano di formazione, invece, la racconta Vito Solinaro.
SI CHIAMA CIRO DI MAIO, viene da Frattamaggiore, provincia di Napoli, ed è titolare della pizzeria a cui simpaticamente ha dato il nome di San Ciro. Tutto normale, almeno fin quando Ciro ha deciso di insegnare ai detenuti della casa circondariale di Brescia Canton Mombello il mestiere di pizzaiolo, tra i più richiesti nel mondo. Dentro la sua pizzeria il profumo è quello del lavoro sano, fatto di puntualità, dedizione e, perché no, anche un pizzico di fatica; il gusto è quello della soddisfazione di riprendere in mano la propria vita e poter dire, un giorno, di avercela fatta. È questa la pizza – rigorosamente napoletana – che Ciro serve ogni settimana a sette allievi pizzaioli un po’ speciali provenienti dal carcere e non dalle vie dei serali aperitivi. “Lo faccio perché anche loro hanno diritto a una possibilità – ha raccontato con un filo di orgoglio ed emozione -; io che vengo dal nulla, da un contesto di case popolari in cui avevamo poco o niente e che pian piano ce l’ho fatta, so che il riscatto e la rivincita sono sempre possibili”.
Ma non è solo per questo che Ciro si è rimboccato le maniche e ha deciso di sporcare di farina il grembiule anche in carcere oltre che davanti al suo forno a legna; lo fa per rendere onore alla memoria del padre: “Mio papà in gioventù è stato una testa calda, poi ha incontrato le suore di Madre Teresa di Calcutta e ha iniziato a occuparsi con loro dei ragazzi difficili e dei tossicodipendenti – continua – ora non c’è più, ma è stato lui, con il suo esempio, a insegnarmi l’importanza di prendersi cura dei più fragili”. E per farlo Ciro ha scelto quello che meglio sa fare: la pizza. “Napoletana, mi raccomando – scherza – che va tanto anche a Brescia, ma in realtà va in tutto il mondo, anche per questo per i detenuti imparare a fare i pizzaioli è importante: così non saranno più numeri, magari in un’azienda qualunque, ma saranno padroni di se stessi, avendo una professione da spendere in tutto il mondo”.
E infatti molti “ristretti” (niente altro che ospiti momentanei della casa circondariale), ben più dei sette ammessi al corso di Ciro, ne avevano fatto richiesta: “Ora sto valutando due giovani, un bresciano e un genovese, da inserire nel mio locale – ammette –, ma naturalmente lo faccio assieme agli operatori del carcere che li conoscono meglio”. L’idea di Ciro, infatti, non si ferma qui: vorrebbe fare rete con gli altri esercenti della città non solo, per creare un sistema stabile di inserimento lavorativo per i ragazzi che escono, perciò lancia un appello accorato ai suoi colleghi: “Il problema della carenza di personale nel settore della ristorazione è una realtà da tempo e questo sarebbe anche un modo per risolverlo – afferma – io mi metto a disposizione, assieme al carcere, per fare da tramite tra questi giovani e le pizzerie. In merito sono già stato contattato da un mio collega di Brescia e da un’associazione di Roma”.
L’esperienza di Ciro in carcere è molto positiva e ha contribuito ad abbattere anche qualche pregiudizio, in primo luogo i suoi: “Tutti quelli che stanno dentro hanno voglia di cambiare – è la sua testimonianza – sanno che imparare un lavoro dignitoso per poi cambiare vita è la cosa giusta da fare”. Non si sente migliore di loro, Ciro, e anche per questo il suo lavoro è molto apprezzato dai ragazzi: “Li guardo negli occhi, vedo i loro sbagli – conclude con la voce imbevuta di commozione – ma sono convinto che debbano avere un’opportunità, che anche per loro che non hanno avuto nella vita la fortuna di avere una famiglia che li guidasse, deve esserci qualcosa di bello là fuori”. Come una pizza che sa di rinascita. Come un lavoro ben fatto che restituisce dignità e speranza a chi dopo aver inciampato ed essersi fatto male s’è rialzato con tanta voglia di ricominciare…
OTTAVIO ALFIERI, MEDICO DI ALTO LIGNAGGIO, originario della provincia di Bergamo ma cresciuto professionalmente all’Ospedale Civile di Brescia, è la figura emblematica di una normalità fatta di pazienza, cura, attenzione e passione, questi e non altri gli ingredienti che costituiscono, qui e altrove, la buona medicina. Ho avuto la fortuna di conoscere il professor Alfieri quando, impegnato nei media, andavo a proporgli di trasmettere il suo sapere, la sua competenza e i suoi preziosi consigli ai telespettatori bresciani. Aveva sempre poco tempo e tanti ammalati da ascoltare, però non rinunciava mai all’invito. Poi, chiamato altrove, di lui seguii le tracce che lo portavano in alto, molto in alto, tra ospedali e cliniche di fama mondiale. Un giorno del 2009 si accorsero di Ottavio i grandi media. Una famosa attrice, operata negli Stati Uniti col metodo Alfieri (un trattamento percutaneo e quindi mininvasivo di molte patologie valvolari), saputo che il merito era della sua guarigione era del professore venuto da lontano, disse di “amarlo”. Alfieri sorrise senza scomporsi. Infatti, per lui, l’attrice famosa e la lavandaia sconosciuta erano parte di un tutto bisognoso e implorante aiuto. Poi, quando in visita a Brescia raccontò quel fatterello, di nuovo sorrise. “Mi arrivò quel messaggio d’amore d’oltreoceano – spiegò – da una donna incredibile, cha già da ragazzo, a 16 anni, ammiravo al cinema mentre interpretava Cleopatra. Chi l’avrebbe mai detto?”.
Il prossimo 4 maggio, a New York, la Società americana di Chirurgia toracica conferirà a Ottavio Alfieri l’“Oscar” alla carriera per aver rivoluzionato il trattamento di molte patologie valvolari. Neppure questo riconoscimento lo aveva previsto. Però, ne è giustamente orgoglioso. Così giovedì, quattro giorni dopo la Festa del Lavoro che il suo lavoro di medico lo ha sempre riconosciuto, a New York, la prestigiosa Società americana di Chirurgia toracica (Aats), nell’ambito del più importante evento scientifico per il trattamento della valvola mitrale, gli conferirà quello che per gli addetti ai lavori è l’“Oscar alla carriera”, ovvero il “Mitral Conclave Lifetime Achievement Award”. Il premio celebra in tal modo l’intera attività professionale di Alfieri che, nel 1996, avviò all’Ospedale San Raffaele di Milano un nuovo capitolo nella cardiochirurgia grazie a un processo di ricerca, innovazione e formazione dagli standard elevati che ha portato alla creazione dell’Heart Valve Center, un percorso di cura avanzato per le patologie delle valvole cardiache.
«Quella del riconoscimento che sto per ricevere a New York -ha detto in un’intervista – è una bellissima sorpresa, ricevuta nel contesto di un evento di estrema importanza, e che condivido con tutti i miei collaboratori del San Raffaele». Alfieri è rimasto nell’ospedale milanese fino al 2017 quale direttore della Cardiochirurgia e del dipartimento Cardio-toracico-vascolare; negli stessi anni ha retto la cattedra di Cardiochirurgia nell’Università Vita-Salute San Raffaele. In precedenza aveva lavorato a Bergamo, occupandosi delle patologie congenite pediatriche, e poi negli Stati Uniti. La sua esperienza con la cardiochirurgia dell’adulto è iniziata nel 1980 in Olanda (dove lo incontrai come medico curante di mio padre, andato fin lassù a cercare chi poteva guarirlo), dove è stato per sei anni. Tornato in Italia nel 1986, divenne primario degli Spedali Civili di Brescia e tale rimase fino al trasferimento a Milano.
Se volete conoscere da vicino il lavoro di Ottavio Alfieri e di tanti che con lui hanno migliorato le cure cardiologiche e non solo, visitate la mostra aperta nella Sala Ex Cavallerizza di Brescia, in titolata “sVALVoLATI e dedicata alla chirurgia del cuore, un vero e proprio viaggio nel tempo”, promossa, in occasione di “Bergamo Brescia capitale della cultura” dallo stesso San Raffaele e da “BergamoScienza”, visitabile fino al 25 giugno a Brescia e poi a Bergamo dal 29 settembre.
La mostra è un viaggio espositivo nella storia della cardiochirurgia dagli esordi nell’antichità, a partire dagli egizi, fino ai nostri giorni, con l’esperienza della realtà aumentata e delle sale operatorie del futuro. Il visitatore ripercorre visivamente le tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione della chirurgia del cuore e si avvicina alle conquiste scientifiche e tecnologiche che hanno cambiato radicalmente la vita delle persone, e che hanno nelle città di Milano, Bergamo e Brescia, dei punti di riferimento mondiali. «È importante condividere la storia dell’innovazione per crearne di nuova. L’intento della mostra – ha spiegato il professor Ottavio Alfieri – è trasmettere ai giovani l’eccezionalità e il fascino di questa disciplina che racchiude in sé tutti gli aspetti positivi del progresso medico». Aspetti in cui l’Italia ha saputo primeggiare facendo scuola nel mondo.
Due ottime e buone storie di lavoro, che appunto perché buone e ottime ne racchiudono altre mille o diecimila, tutte da raccontare, tutte da vivere. Cercatele (non è difficile trovarle, basta guardare tra officine, stabilimenti, botteghe, uffici, pizzerie, ristoranti, ospedali, case di riposo, cliniche, strade polverose, campi e foreste, carceri e caserme, ovunque vi siano braccia, mani e menti impegnate a lavorare e creare: stanno lì in bella evidenza per dire che insieme, lavorando e creando, si costruisce quel mondo nuovo destinato ad accogliere chiunque chieda di essere accolto), poi comunicatele e celebratele: sono parte della Festa del Lavoro, meritano di essere conosciute.
LUCIANO COSTA