I toni forti usati da molti nel denunciare la “presunta” occupazione della Rai, solito ritornello di ogni cambio di maggioranza (e che, per questo, in passato ha caratterizzato pure il centrosinistra, anche se con stili e sensibilità diverse), hanno colpevolmente fatto passare un po’ in secondo piano due notevoli scivoloni nei quali sono incorsi, negli ultimi giorni, i piani alti del Governo.
Nel primo scivolone, la premier Giorgia Meloni ha tramutato le tasse da quella “cosa bellissima” evocata anni fa, con un eccesso di enfasi, dallo scomparso ministro Tommaso Padoa-Schioppa, addirittura in “pizzo di Stato”. Nel secondo, il ministro degli Affari europei, Raffaele Fitto, si è dedicato a un’inusuale e scomposta reprimenda verso la Corte dei Conti, che dovrebbe avere “un approccio costruttivo” nella rendicontazione delle fasi di avanzamento del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) uno spirito diverso da quello tenuto finora, magari benevolo se non proprio accomodante.
I due scivoloni, insieme, riprovano, ancora una volta, che l’uso accorto delle parole è arte nella quale l’esecutivo di destra-centro si deve affinare, ben al di là degli slalom del ministro Francesco Lollobrigida fra i concetti di razza ed etnia. Sono solo sgrammaticature istituzionali comunque gravi – tutti questi episodi messi in fila – o l’indice (e l’indizio) di una precisa linea di navigazione del melonismo (che peraltro nelle urne dello scorso fine settimana ha trovato ulteriori conferme), tendente davvero a cambiare la «narrazione del Paese» e ad annullare ogni forma di opposizione?
Il tempo darà una risposta. Resta per ora, tuttavia, un forte senso di spaesamento davanti a questi toni e parole usati. Segno di una pervicacia che tenta di camuffare risultati che, come spesso capita quando si passa dall’opposizione alla maggioranza, tardano ad arrivare, su svariati fronti. Se il monito di Fitto richiama la contrapposizione fra politici e tecnici che ha comunque molti precedenti (anche se raramente si era tradotto poi in emendamenti per rivedere addirittura le competenze della Corte dei Conti), ancor più sgradevoli sono i termini usati dalla presidente del Consiglio venerdì scorso, nel chiudere il comizio di Catania.
Fatta la tara agli eccessi tipici di una campagna elettorale, è forse eccessivo pensare che Meloni abbia voluto strizzare l’occhio agli evasori, quando più probabilmente voleva dar a intendere che l’Erario non deve essere vessatore verso i piccoli commercianti, sottoposti a uno stillicidio di tributi e adempimenti.
Eppure, l’uso di quel termine – pizzo –, così fortemente evocativo di quelle estorsioni che sono uno dei fenomeni più forti che lo Stato deve combattere, rimane in ogni caso decisamente sopra le righe e da censurare in bocca a un capo di governo. Lo è per la sola idea di accostare a un’attività tipicamente mafiosa quello che è invece uno dei compiti primari di ogni Stato, fondamento dello stesso patto civico stretto con i cittadini per garantire il benessere comune a tutti gli italiani.
Ma, come diceva George Orwell, «nessuno è patriottico quando si tratta di pagare le tasse». Nemmeno la patriota Giorgia Meloni, evidentemente. Ma non è di queste parole d’ordine che ha bisogno il Paese.
(Eugenio Fatigante)