Una lettrice, dopo aver letto la nota dedicata ieri ad Europa, Kazakistan, Armenia, Azerbaigian Corno d’Africa e luoghi in guerra, mi manda a dire che “essendo già tribolata per quel che succede qui non gradisce le tribolazioni altrui”. Capisco, ma non posso adeguarmi. Il mondo, ormai, lo possiamo racchiudere in una mano: basta cliccare e le sue condizioni di salute appaiono nude, crude, sfacciate, impietose, piene di morti ammazzati, di poveri cristi in cerca di ristoro, di ricchi che il ristoro se lo tengono stretto, di politici che parlano-sparlano-dicono e disdicono senza pudore, di gente che si volta dall’altra parte per non vedere, di navi e barconi carichi di disperati in cerca di liberazione… Sì, basta cliccare ed ecco che il mondo si svela, per fortuna non solo nella sua parte peggiore. Perché, a ben guardare, c’è del buono intorno a noi. Ma, purtroppo, il buono non fa notizia e i media, con rare eccezioni, delle carezze donate generosamente non sanno che farsene. Però, la preoccupazione espressa, mi spinge a credere che le “buone notizie” devono e possono essere parte del mio e vostro quotidiano. E le cattive notizie? A quelle non v’è rimedio e saranno sempre lì a pretendere di essere messe in circolo, “perché il lettore o telespettatore o radioascoltatore – diceva il saggio direttore ai suoi cronisti – vuole essere sicuro di non far parte di quanto viene raccontato”, Proprio come quel tale (o quei tali) che del suo quotidiano interessavano innanzitutto i necrologi. “Leggo e non trovo il mio nome; allora vuol dire che sono vivo”, diceva. Era la sua gratificazione. Per il resto, una fugace lettura dei titoli e poi via, che il peggio non è qui ma là, o comunque deve ancora venire. Non c’è nulla di cui stupirsi. Conosco politici, dirigenti, sindaci, manager, industriali, commercianti, finanzieri, banchieri, professori, maestri, commentatori, opinionisti e gente che se la tira partecipando assiduamente all’universo dei social, che si vanta di non leggere giornali e libri, di vedere la tv solo per passatempo, che gli basta lo scorrere delle notizie principali (arrivano sul cellulare, sono più comode e meno appariscenti) per ritenersi soddisfatto. Però conosco anche operai, contadini, spazzini, impiegati, mamme, casalinghe, badanti, autisti, studenti, ragazzi e ragazze e anche tanti di quelli già menzionati quali distanti da letture e notizie, che invece leggono, meditano e approfondiscono. Vuol dire che non tutto è perduto e che un “buon futuro” è ancora a portata di mano e cervello? Forse sì. Almeno lo credo e spero. Perché questa “novella utopia” si concretizzi, occorre però passare dalle parole ai fatti.
Mi soccorre in questa attesa quel che ha scritto Alberto Monda a proposito di parole che non servono a niente. Dice il notista che “le parole non servono a niente, contano i fatti… Quante volte ce l’hanno detto, quante volte ce lo siamo detto, quante volte lo abbiamo ripetuto. Le parole volano. I fatti restano. I fatti accadono. E, quando diventano bombe, cadono. Tremendamente. Succede anche in Ucraina, dove russi e ucraini si ammazzano; succede in altri centosessantotto luoghi del mondo dove, oggi come ieri e come l’altro ieri, si continua in molti modi, tutti feroci, tutti assassini, a fare guerra contro l’umanità”. Così le parole non servono a niente, contano i fatti. “Eppure dice Monda – le guerre cominciano sempre da parole perdute e non dette, e da ordini impartiti. Gli ordini sono parole armate, e se togli loro la divisa diventano slogan e armano anche coloro che non portano uniformi e non impugnano armi”. Poi ci sono le parole perdute e non dette: “Sono i silenzi che non fanno la pace e non lasciano in pace nessuno, soprattutto i poveri. Sono silenzi che uccidono e che distruggono, con rumore di tuono, con clamore di morte e con l’ovatta asfissiante dell’indifferenza o della retorica bellicista. Come in Ucraina, come in quegli altri centosessantotto luoghi del mondo dove prosegue incessante il massacro dell’umanità. Il lento massacro che a volte neppure chiamiamo guerra, ma che oppone e contrappone atrocemente uomo a uomo e uomini a donne e bambini”. E’ l’immane massacro che dicono scriva la storia e che invece continua solamente a insanguinarla.
Le parole non servono a niente, contano i fatti. E allora bisogna avere il coraggio di misurarsi con i fatti. E i fatti raccontano che la pace comincia sempre da parole ritrovate, e annodate e riannodate tra loro. Da parole rimesse al loro posto, una accanto all’altra e non violentemente una contro l’altra. Una accanto all’altra, sì. Come le persone, come i popoli, come le religioni. Come è accaduto ieri Kazakistan, dove papa Francesco e altri cento leader religiosi hanno riaffermato la natura divina eppure umana della pace; come è accaduto nelle mille e mille chiese d’Europa dove ieri si è pregato per la pace; come sta accadendo a Trento, nel Religion Today Film Festival, dove per la venticinquesima volta la pace ha preso corpo e immagine in un incontro di uomini e donne di buona fede e di buona volontà.
Senza violenza, ma con forza e decisione e tutto il coraggio necessario per fare resistenza all’odio, è necessario disubbidire alla disumanità, disarmare le mani, sollevare obiezione alla guerra e, se gli occhi hanno ancora dimestichezza con cielo, pregare insieme e negoziare e dichiarare la pace. Insomma, “dobbiamo smetterla di credere a chi ci dice che le parole non servono a niente. Tutte le parole hanno consistenza e peso e costo. Le parole della pace di più. Togliamo le parole ai signori della guerra, ai maestri delle propagande, ai distillatori di veleni, ai costruttori di muri, ai sobillatori di violenti, ai sabotatori di Dio, e avremo tolto loro tutto. Riprendiamoci le parole, disarmiamole, ripuliamole, riconciliamole e smettiamo di avere pudore e quasi paura di togliere loro la corazza e di dire in modo nudo e semplice: pace e nonviolenza, bontà e uguaglianza, libertà e responsabilità, fraternità e amore. Le parole sono fatti. E sulla terra degli uomini e delle donne, e sotto il cielo di Dio, chiunque esso sia e quali siano i suoi seguaci, è questo il tempo di dire e vivere le parole della pace. Le parole sono fatti. Le parole della pace di più.
LUCIANO COSTA