C’è poco da festeggiare e tanto da pensare in questa Festa Internazionale del lavoro. Come e più di un anno fa, Covid impone la sua ferrea logica: tutti a casa, che “qui comando io e ogni dì voglio sapere chi viene e chi va”. Detto e fatto: basta volgere lo sguardo alle cifre che minuto per minuto vengono divulgate e poi commentate e proiettate all’infinito come se di cifre angoscianti e non di ragionevoli soluzioni ci si debba obbligatoriamente nutrire a colazione, pranzo e cena. Non starò a rifare la somma di ammalati e morti (la nota pubblicata ieri ne dava conto), invece rimetto al centro il dovere di non dimenticare nessuno e di ricostruire per tutti un tempo in cui la solidarietà prevalga sugli interessi personali. “Ma serve solidarietà, una grande solidarietà – mi ha detto il vecchio sindacalista che il Primo Maggio è costretto a vederlo dalla sedia a rotelle – per andare oltre lo star bene da soli e per sconfiggere piccoli e grandi interessi personali…”.
Magari, aggiungo io, anche per passare dall’orto mio e solo mio a quello di tutti, per abbracciare chi passa e chiede aiuto, per cedere il posto al vecchio decrepito, per passare dall’accumulo (di soldi, di potere, di prebende, di benefit, di corsie preferenziali, di privilegi e di qualsiasi cosa che non sia alla portata di tutti) alla condivisione (di soldi e via discorrendo…). Nel conciliabolo del venerdì, passatempo andato in scena al giardino che ha preso il posto della solita osteria, due dei cinque partecipanti hanno detto chiaro e tondo che per loro conta aver fatto “la loro vaccinazione, che quella degli altri è affare che non li riguarda” e i restanti tre hanno fatto finta di non sentire lo sproloquio. Però, uno si è girato per dire: “Attenti, gli egoismi generano egoismo; di tutto abbiamo bisogno meno che di un popolo di egoisti”. Ovviamente, non ha trovato ascolto.
Però, saltando dal solito calcio giocato e chiacchierato alla Festa del lavoro di imminente celebrazione, il concetto di solidarietà, con sfumature diverse da quelle illustrate dall’evangelo, predicate dal prete e ipotizzate dal buonismo di taluni, è riapparso in tutta la sua validità. Sulla base di un “se non si riparte insieme non si restituisce lavoro a chi l’ha perso”, i partecipanti al conciliabolo non hanno esitato a ribadire che “il lavoro è un bene comune e come tale deve essere onorato”. Proprio come sta scritto nell’articolo quattro nella nostra mai sufficientemente lodata e proclamata Costituzione, proprio quello che dice: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ma la pandemia sta impunemente sovvertendo questo diritto.
Oggi, primo maggio, il rischio è di celebrare non la Festa del lavoro ma quella del non lavoro: in un anno di pandemia sono stati azzerati novecentomila posti di lavoro; un anno di Covid ha prodotto milioni di disoccupati, di sotto occupati, di sfruttati e di disperati. Oggi, benché nessuno sia ammesso in piazza per celebrare la Festa del lavoro, sarà il caso di alzare la voce affinché chi deve e può senta e si faccia interprete del dovere di assicurare dignità e applicazione a ciò che la Costituzione stabilisce come diritto di chiunque sia cittadino riconosciuto in questa terra bella e benedetta che si chiama Italia.
Le Acli (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), pur non godendo adesso della spettacolare adesione che le aveva portate a essere “la coraggiosa voce dei lavoratori cristiani”, non hanno esitato a rimettere in circolo il coraggio di testimoniare il diritto al lavoro come mezzo per garantire dignità e futuro alla società. “Il lavoro – hanno dicono oggi le Acli nel loro messaggio – è anche un atto di coraggio quotidiano, personale e collettivo, che incarna e reclama le ragioni di una ripartenza che abbracci realmente tutti e ci permetta di non perdere l’occasione per una vera conversione ecologica, sociale e civile. Per questa ragione, per uscire migliori dall’attuale crisi, serve ribadire e riaffermare il coraggio del lavoro”.
Qualche decina di anni fa, esattamente il Primo Maggio 1956 (che anche allora era Festa del Lavoro), un certo don Primo Mazzolari, prete scomodo scomodissimo e inviso ai benpensanti, dal pulpito della chiesa di Bozzolo parla per la prima volta della Festa celebrata quel giorno e osannata dagli internazionalisti quale “supremo canto al potere delle masse operaie”, come “festa cristiana del lavoro” con San Giuseppe proclamato patrono di tutti i lavoratori. Bruno Bignami scrive che in quella occasione “con orgoglio il prete cremonese fa presente che, nelle parrocchie da lui guidate, la festa del lavoro veniva celebrata da molti anni (dal 1921 per la precisione), a sottolineare che il cristianesimo si trova a suo agio in ciò che è autenticamente umano”. Don Primo, con garbo e attenzione, parla di San Giuseppe, il falegname di Nazareth padre di Gesù, non come figura centrale della spiritualità popolare, ma come essenziale riferimento se l’intenzione è di seguirne l’esempio. Il lavoro di Giuseppe, spiegò allora don Primo “non è una condanna, ma vita piena”. Infatti, come scrive Bignami “nella concezione del prete cremonese l’attività umana è nobile, mentre è l’uomo ad aver sconsacrato il lavoro obbligando le persone al troppo lavoro, sfruttando la manodopera, non pagandola e non rispettando i diritti umani…”.
Tante cose sono cambiate e certo oggi il lavoro è protetto e salvaguardato. Ma vale ancora la pensa ricordare, con le parole del prete sull’argine, che “il lavoro onesto, a discapito di quello che pensano in molti, migliora la propria umanità e la propria condizione sociale”. Se questo accade, diventa “umanesimo planetario”, lezione universale per capire “il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro”.
Ha scritto recentemente papa Francesco (un esperto, che il lavoro l’ha conosciuto e che la fatica del lavoro l’ha masticata a lungo in terra argentina): “In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità…”.
Oggi, senza andare in piazza, è possibile celebrare la Festa del Lavoro dando dignità al lavoro. Come fare tocca a ciascuno deciderlo.
LUCIANO COSTA