Alla conferenza stampa seguita all’approvazione del nuovo decreto di aiuti finalizzato a mettere pezze alla crisi e a far ripartire il Paese, al presidente Mario Draghi hanno chiesto se fosse disposto a ritornare a Palazzo Chigi. Ha risposto un “no” secco. No, e nessun commento, nessuna aggiunta, nessuna giustificazione, neppure un “mi dispiace, ma ho già dato…”. Apprezzo Mario Draghi e credo che un Governo senza la sua guida apra scenari inquieti, inquietanti. Però sono altrettanto convinto che una chiamata appassionata, generale e ben supportata dal Presidente della Repubblica potrebbe indurlo a riprendere le fila di un discorso iniziato e rivelatosi appropriato per rimettere l’Italia al centro dell’Europa. Intanto, di fronte al nubifragio che ha colpito le Marche, non ha esitato a dire che il Governo, sebbene in scadenza, “farà tutto il possibile per aiutare le popolazioni colpite a risorgere e a ritrovare serenità”. Con la stessa forza e la medesima convinzione, Draghi ha anche confermato all’Ucraina vicinanza e aiuto, chiesto all’Unione Europea unità e coraggio, messo in guardia gli europei dal lasciarsi trascinare alla deriva da un populismo esasperato, chiesto alla Politica e ai politici la responsabilità di dettare linee precise ancorate a valori irrinunciabili di democrazia e libertà, invocato la solidarietà di tutti per andare verso un futuro migliore…. Peccato non sia nella competizione elettorale. Chissà, forse dopo la frenesia causata dalla corsa ai voti servirà di nuovo la sua ferma competenza e la sua visione di futuro improntata al possibile e all’equo. Che senza Mario Draghi al Governo tutto sarà più difficile sono convinti in tanti. Renzi e Calenda, per esempio, ripetono ogni giorno che in un momento così complicato e pieno di incertezze, solo uno come lui può reggere saldamente il timone della barca. Mancano otto giorni alle elezioni, ne vedremo delle belle. Ma toccherà poi agli italiani decidere con chi stare e dove andare. Certo, restano insoluti molti problemi – lavoro, pensioni, sanità, scuole – ma molto è stato fatto. Su questioni difficili come pensioni e salario minimo, per esempio, Mario Draghi aveva idee precise. Peccato che la fine anticipata del mandato abbia rimandato tutto a nuova data. Sulla previdenza Draghi aveva aperto negli ultimi mesi un difficile tavolo di confronto con le parti sociali con l’obiettivo di addolcire la riforma Fornero e sui redditi era pronta una proposta di mediazione per estendere a tutti i lavoratori di ciascun comparto i livelli salariali dei contratti più rappresentativi.
Forse l’eterogeneità politica della vecchia maggioranza e lo stretto sentiero del bilancio avrebbe impedito di arrivare a una soluzione condivisa. Chissà. Ma certo l’improvvisa caduta del governo ha chiuso il discorso e ora la parola passa all’esecutivo che si insedierà dopo il 25 settembre. Con il rischio che sul fronte previdenziale si apra con un ritorno alle sole regole di uscita sancite dalla riforma varata in tutta emergenza ai tempi della crisi nel 2012. Per il futuro, cioè per il dopo 25 settembre, difficile prevedere sbocchi immediati. Per adesso ci sono soltanto le intenzioni – buone, grame, vanitose, bugiarde e quindi inutili – espresse in campagna elettorale. Poi, anche ammettendo che il nuovo governo abbia intenzione di rimettere mano alle regole di uscita, l’esiguità dei tempi a disposizione, con un insediamento previsto non prima di novembre e la manovra di bilancio da preparare in pochi giorni, difficilmente permetteranno un intervento strutturale sulla previdenza. Forse qualche ritocco sì, ma è difficile che si vada oltre, dato che il tema ha una forte ricaduta sui conti pubblici, a maggior ragione in un contesto di grave incertezza economica e mentre sull’Europa soffiano venti di guerra e di recessione. “Quanto ai salari – almeno secondo il parere degli esperti -, se a prevalere sarà la coalizione data per vincente nei sondaggi, il centrodestra, è molto probabile che il salario minimo legale non si farà, anche se in qualche misura nei prossimi anni l’Italia dovrà recepire la direttiva Ue. Sulle pensioni a spingere per nuove regole è soprattutto Matteo Salvini, come già in occasione del governo gialloverde del 2018.
Oggi la bandiera elettorale della Lega è quota 41, ovvero la possibilità di lasciare il lavoro con 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. Una possibilità concessa ora solo a chi svolge mansioni usuranti e ai lavoratori precoci. L’estensione è ben vista anche dai sindacati e dalle forze a sinistra del Pd. Secondo l’Inps, generalizzare questa via di pensionamento costerebbe però 4 miliardi il primo anno e 70 miliardi in dieci anni. Forse per questo nel programma comune del centrodestra il numero 41 non appare: si parla più vagamente di “flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione, favorendo il ricambio generazionale”.
Dal canto suo il Pd si schiera per una maggiore flessibilità, con pensionamenti a partire dai 63 anni da “realizzare nell’attuale regime contributivo”, che comporterebbe un taglio dell’importo delle pensioni “in coerenza con l’equilibrio del sistema”. In particolare, il PD propone di rendere strutturali l’Ape sociale e Opzione donna. Proposte, queste, appoggiate anche dal M5s che dal canto suo punta ad ampliare in maniera significativa la platea dei lavori usuranti e a offrire il riscatto gratuito degli anni della laurea. Il Terzo polo di Azione e Italia Viva sulle pensioni glissa. Segno che, in sostanza, ritiene inevitabile restare nell’ambito della legge Fornero. Di sicuro però i sindacati, che chiedono una maggiore libertà di scelta nel pensionamento e senza eccessive penalizzazioni dell’assegno, torneranno subito alla carica, qualunque sarà il nuovo governo.
Da registrare infine l’idea di Berlusconi e Forza Italia, idea per altro non nuova e già naufragata, di portare tutte le pensioni a un minimo di 1.000 euro. Una promessa il cui costo è valutato in una ventina di miliardi l’anno.
Sul fronte lavoro il dato di fondo da considerare è che l’Italia ha avuto negli ultimi 30 anni il più basso incremento dei salari reali tra tutti i Paesi avanzati. Situazione pesante ma gestibile finché l’inflazione è stato prossima allo zero. Drammatica con i prezzi al galoppo di oggi e l’inflazione vicina alle due cifre. Molte le proposte dei partiti su un tema che, più di altri, tende a riproporre la dicotomia tradizionale destra-sinistra. Un punto di contatto di trova sulla necessità di ridurre il carico fiscale e contributivo che grava sui salari. Ma le ricette sono diverse.
Il centrodestra pensa a un taglio del cuneo che vada a beneficio tanto delle imprese che dei lavoratori all’interno di una generale riduzione della pressione fiscale attraverso il sistema della Flat tax – a cominciare dai lavoratori autonomi e dagli aumenti contrattuali dei dipendenti – e del principio “chi più assume meno paga”. Ma l’operazione meno tasse, se attuata, metterebbe sotto pressione i conti pubblici e dovrà confrontarsi con i nuovi equilibri europei sui vicoli di bilancio, a meno di non ridurre la spesa pubblica e quella sociale. Prospettiva che contrasta però con gli interventi annunciati sulle pensioni. Nell’immediato si punta comunque a tutelare il “potere d’acquisto di famiglie, lavoratori e pensionati” messo a rischio da crisi e inflazione e a intervenire sull’Iva per calmierare i prezzi dei prodotti di prima necessità. Il programma ripropone anche l’estensione dell’uso dei voucher lavoro, specialmente nel turismo e in agricoltura, uno strumento che era stato fortemente ridimensionato pochi anni fa dopo le polemiche sul loro eccessivo utilizzo. Voucher rilanciati anche dal Terzo polo per contrastare, si afferma, il precariato di false partite Iva e falsi tirocini, tagliando invece i mini contratti.
Anche gli altri partiti dal Pd, al M5s, ad Azione-Iv puntano in vario modo a una riduzione del cuneo sui salari, a beneficio soprattutto dei lavoratori. La proposta PD è di dare una mensilità in più ai dipendenti tagliando stabilmente i contributi previdenziali. Una misura anche questa onerosa per i conti pubblici, anche se più mirata: il costo sarebbe intorno ai 12 miliardi, da finanziare, assicurano i dem, con i proventi della lotta all’evasione. Il Terzo polo propone la detassazione completa dei premi di produttività. Gli interventi fiscali hanno l’obiettivo di aumentare prevalentemente il netto in busta paga. La proposta del salario minimo comporta invece anche maggiori uscite per le imprese, con un aumento delle retribuzioni di mercato. Si tratta di due filosofie diverse: la prima punta a contenere il costo del lavoro come leva di sviluppo occupazionale, una ricetta già sperimentata negli ultimi decenni, la seconda punta a una maggiore equità ma dovrebbe servire anche a orientare le aziende a una maggiore produttività.
A sostenere la seconda strada sono il Pd e il M5s e in parte anche il Terzo polo. I dem puntano a dare valore erga omnes al trattamento previsto dai contratti più rappresentativi nei diversi settori, con una soglia minima affidata alle parti sociali. Azione-Iv chiede anche una legge sulla rappresentanza per combattere i contratti-pirata. Il Movimento rilancia invece il minimo salariale per tutti fissato dalla legge, indicando la soglia dei 9 euro l’ora lordi. Niente paga minima invece nel programma del centrodestra. Pentastellati e dem insistono poi anche sul contrasto del precariato. I primi affermano di voler rafforzare il decreto dignità, i secondi puntano sull’esempio spagnolo che scoraggia i contratti a tempo determinato tanto sul piano normativo che contributivo.
Mancano otto giorni alle elezioni, pochi ma ancora in grado di aiutare a meditare e a scegliere a chi dare fiducia. Come fare a scegliere dipende da ciascuno. A tutti, invece, è chiesto di avere coraggio e di non fidarsi delle chimere, dei venditori di fumo, dei propositori di mezze e scarse verità.
LUCIANO COSTA