Oggi, 11 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale del Malato, occasione propizia per mettere al centro il dolore di chi misura il peso delle malattie e per esprimere gratitudine, riconoscenza, rispetto, stima e affetto a coloro che dei malati si prendono quotidianamente cura. La data, scelta non a caso (è infatti quella che ricorda, per tanti il magnifico mistero delle apparizioni della Madonna alla piccola Bernadette Soubirous, avvenute a Lourdes nel 1858, esattamente 164 anni fa, ma per altri solo la mistificazione di un evento, che secondo gli scettici “utile soltanto a creare effetti sulla massa”) unisce alla devozione che ogni anno porta a Lourdes milioni di malati in cerca di speranza e salute, la certezza che in quella cittadina collocata ai piedi dei Pirenei la malattia è abbracciata, condivisa, portata insieme così che meno grave sia il suo peso. Lourdes, dunque, come luogo in cui ritrovarsi per andare oltre la malattia e gettare le basi per una rinascita che passa certo dalla guarigione ma anche dalla consapevolezza di poterlo affrontare e vincere quel morbo che assale improvviso e che getta scompiglio ovunque si assesti.
La Giornata, voluta da papa Giovanni Paolo II dopo aver sostato a lungo tra gli ammalati riunti attorno alla Grotta in cui apparve la Mdonna, compie trent’anni e continua a sollecitare attenzioni e cure, aiuti e solidarietà, comprensione per chi soffre e vicinanza a chi, per professione e per scelta, è deputato alla cura. Il titolo della Giornata, per i cattolici e per chiunque veda nel giorno l’occasione per prendersi cura di qualcuno che soffre, è racchiuso nell’invito a “essere misericordiosi…”. Ma, che cosa vuol dire “essere misericordiosi o, semplicemente, usare misericordia?”. La Bibbia, a chi cerca la parola “misericordia” consiglia di vedere alla voce “amore”; il vocabolario della lingua italiana la definisce “sentimento di compassione e di pietà”; la lingua latina la considera “apertura del cuore agli altri”. Nessuno, almeno fino a qualche tempo fa, aveva preso la “misericordia” per mano al fine di coniugarla, adattarla ai gesti che si compiono, renderla mia, tua, sua, nostra, vostra e loro. Poi, Papa Francesco, forse perché abituato dalla sua lingua madre a rendere amabili le parole, l’ha fatto, definendo la bontà dei gesti che si compiono in nome della carità, un “misericordiare”, quasi un “salmodiare” la parola per renderla gradita, commestibile, fruibile, buona per definire anche la generosità più insignificante. Da qui all’invito racchiuso nella Giornata odierna a “essere misericordiosi…”, perché questo è il modo migliore per vincere le sfide che le malattie impongono, che la pandemia non ancora debellata continua a proporre…
Verrebbe voglia, e il primo a sentirne gli effetti sono io, di andare dove l’ammalato smette di essere malato e diventa fratello da accompagnare nella sua sofferenza. Non solo. Verrebbe voglia di essere, almeno oggi, a Lourdes, la cittadella di riferimento per chi soffre, così, per una preghiera che interceda salute ma anche per vedere l’effetto che fa stare in mezzo a tanti malati che sperano, senza pretendere, di vedere la luce e di riabbracciare la salute persa per strada. Invece, eccomi qui a ripensare eventi e a riascoltare parole già ascoltate. Come quelle con cui il vescovo Giacinto Tredici, negli anni Cinquanta, invitava i bresciani che accoglievano il nuovo ospedale a “considerare il malato fratello e amico; vedere la malattia come una prova da vincere insieme; avere il coraggio di stare dalla parte del sofferente; fare anche l’impossibile perché la luce della speranza non debba mai spegnersi; accompagnare la sofferenza con gesti, cure e, soprattutto, con parole in grado di illuminare la mente e i passi che si debbono compiere…”.
Eccomi qui a ripensare ai viaggi fatti a Lourdes, pronto a ribadire che la mia Lourdes incomincia dove finiscono tutte le certezze dell’umana avventura. Perché la mia Lourdes è qualcosa che va al di là delle parole e dei gesti, qualcosa che si fa preghiera e spirito che avvolge fino a dimostrare che sopra di te c’è un cielo infinito pieno di misericordia e di sorrisi; perché la mia Lourdes è una città dove tutti possono arrivare con la certezza di essere accolti, compresi, benedetti; perché la mia Lourdes è piena di lacrime, di rosari e di litanie, di sorrisi che annullano il dolore e la rassegnazione, di abbracci che mi fanno sentire importante, unico, di Madonne che si piegano fino ai miei piedi per aiutarmi a salire, di uomini e donne che smettono di essere per loro e che diventano solo per gli altri, di confessori che ascoltano e trasformano eventuali colpe in grazia, di preti e frati che si alternano all’altare per consacrare il Pane e distribuirlo a piene mani. La mia Lourdes è sempre nuova e nessuno può convincermi che tornarvi è solo una ripetizione di gesti già consumati e di preghiere già innalzate.
La mia Lourdes è quella che alcuni anni fa ho racchiuso in un piccolo volume dedicato a coloro che del pellegrinaggio degli ammalati erano alfieri e sostenitori, la stessa che spalancava le sue grandi braccia e mi ha accoglieva affinché sperimentassi il valore del camminare insieme agli ammalati, perché intendessi anche le parole più segrete e impronunciabili. Anche quelle non dette: poiché spesso, a tanti pellegrini in cerca di speranza, poco importa se ammalati o sani, non è offerta la possibilità di dire, gridare, implorare, supplicare, pregare… Essi, infatti, non hanno voce, non vedono e non sentono, eppure sono vivi e rincorrono la fiamma che non smette di ardere ai piedi dell’Immacolata, chiedono gocce di acqua benedetta, parlano con il Cielo, condividono il loro tempo con quello di chi li accompagna e li abbraccia senza paura e senz’altra preoccupazione se non quella di trasmettere affetto e gioia, ridono e piangono: perché così è la vita, perché di sorrisi e di lacrime è intrisa la città dell’uomo.
Se potete, celebrate anche solo col pensiero questa Giornata che non esclude nessuno. Poi, annotate le divagazioni intimistiche di cui vi ho fatto partecipi tra le utopie che gli anni e gli acciacchi mi hanno (ma nulla toglie che siano anche vostre) regalato.
LUCIANO COSTA