Gli spari sui manifestanti

Guardando le immagini provenienti dal Kazakistan in rivolta è probabile che tanti siano corsi a sfogliare l’atlante per capire dove collocarlo e come interpretarlo nel contesto del grande mondo asiatico. Scoperto che è un Paese dell’Asia centrale abitato da circa venti milioni di persone, ex repubblica sovietica, che si estende dal Mar Caspio (a ovest) fino confine con Cina e Russia (a est) e che occupa una superficie nove volte maggiore di quella dell’Italia (dove gli abitanti sono già sessanta milioni), immagino si siano anche stupiti nello scoprire che si trattava non di un Paese terzo o quarto, bensì di un Paese ricco e benestante, in cui c’era tutto quanto serviva a vivere bene. Unico neo, la mancanza di democrazia e di libertà: beni superflui secondo il regime, ma beni assoluti per chi voleva renderli pane quotidiano. I più anziani, di sicuro, saranno andati con la memoria ai tempi in cui le rivolte o le richieste di libertà e democrazia che si alzavano dagli allora Paesi satelliti dell’Unione Sovietica venivano soffocate dai carri armati e dalle truppe inviate dalla “grande madre russa” per ristabilire l’ordine e salvare il regime dominante a lei fedele. Era già accaduto a Budapest nel 1956, si era ripetuto a Berlino nel 1963, poi a Praga nel 1968… in tempi più recenti in Ucraina, adesso in Kazakistan.

Tutto questo conferma che “la storia non insegna e perciò ripete il suo macabro dialogo”. Ieri il presidente del Kazakistan ha ordinato alle sue truppe di sparare senza alcun preavviso sui rivoltosi. Sempre ieri, sul suolo kazeko si sono insediati gli alleati russi, mandati per sostenere il regime e preservarlo da chi, “sostenuto – dicono i portavoce ufficiali – da chissà quali potenze straniere”, usa il prezzo del gas, improvvisamente diventato troppo caro, per mettere a soqquadro il Paese, costringere il “presidente despota” ad andarsene e così aprire le porte alla libertà e alla democrazia. Davanti al televisore che mostrava le immagini della rivolta in atto in Kazakistan ho chiesto ad alcuni giovani se e come si sentivano coinvolti. Uno solo mi ha detto di sentirsi “stupito nello scoprire militari vestiti e rimpinzati di armi e corazze, nel vedere eserciti con armi spianate, carri armati e blindati pronti all’uso, aerei affollati da soldati così vistosamente armati da far credere che di fronte a loro era già schierata chissà quale forza eversiva”. Per tutti gli altri, quel che stava accadendo era “cosa che non interessava”.

Per spiegare che cosa si nasconde dietro l’impennata di violenze in Kazakistan, ha scritto l’altro ieri Giorgio Ferrari “dobbiamo forzatamente allontanarci dai pur immensi confini di questo Stato nato dalle ceneri di una delle Repubbliche asiatiche dell’Urss ed esaminare una mappa ancor più vasta: quella cioè che contiene tutte le pedine del Great Game, il «grande gioco», come profeticamente lo chiamò nel 1834 l’esploratore-spia Arthur Conolly, che contrappose per tutto l’Ottocento l’Impero russo e la Corona britannica nella corsa al controllo dell’Afghanistan e delle città carovaniere dell’Asia centrale”. Il Kazakistan in fiamme, in preda a una rivolta del gas che insieme al carovita reclama la messa in mora del regime, altro non è se non l’ulteriore mano di quell’eterna partita.

Kazaki e bielorussi, ha spiegato il giornalista, a loro modo si assomigliano. “Entrambe le nazioni sono uscite dal giogo stretto dell’Unione Sovietica, entrambe hanno aperto ponti e mercati all’Ovest, entrambe tuttavia hanno ancora bisogno della tutela russa. Ne ha avuto bisogno Lukashenko, che nella rivolta scoppiata lo scorso anno ha beneficiato dei consiglieri e miliziani mandati da Mosca (nonché di un Mig russo grazie al il quale – con autentico atto di pirateria internazionale – è stato dirottato un aereo civile con a bordo un dissidente, poi arrestato) per stroncare le manifestazioni di protesta. Ne ha avuto bisogno ora il Kazakistan, che ieri ha visto arrivare il primo contingente di paracadutisti russi, come peraltro previsto dall’alleanza Csto, la Forza di sicurezza collettiva che riunisce, oltre a Mosca, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan: non a caso, tutte ex repubbliche sovietiche. Per qualcuno, un’invasione camuffata da intervento di pace”.

Non èil caso di meravigliarsi: il Kazakistan è una pedina strategica del Great Game. Nel suo immenso territorio si cela oltre il 60% delle risorse minerarie dell’ex Urss, ma è negli idrocarburi (produce 100mila barili di greggio al giorno e 54 miliardi di metri cubi di gas all’anno) che si condensa il 70% delle sue esportazioni e il 21% del Pil. Non mancano le accuse di Mosca a non meglio definite «potenze straniere» ispiratrici dell’insurrezione. Paradossalmente però la rivolta kazaka – che a Mosca costerà risorse e forse nuove sanzioni, come già quella bielorussa – sta divenendo una carta che Putin intende giocare al tavolo in cui si discuterà di Ucraina con la Nato e con Joe Biden e dove il capo del Cremlino reclamerà la «sicurezza» delle proprie frontiere. Con una novità: la velata minaccia di riesumare – proprio grazie alla sovranità limitata del Kazakistan e della Bielorussia – la mai sopita dottrina Breznev. Lontani duecento anni dal disfacimento dell’Impero ottomano e dalla brama di accesso ai mari caldi suggerito dagli appetiti imperiali di Caterina di Russia, oggi la posta in gioco sembra essere la ricostruzione dell’Urss.

I tempi cambiano, ma il grande gioco imperialista russo non cambia mai.

LUCIANO COSTA

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