Occhi tutti puntati su Roma, città bellissima, capitale di un’Italia bellissima, ma anche centro di raccolta di tutte le italiche inadempienze politiche e sociali, tanto possibili quanto immaginabili. Roma oggi parla di pace. Ed essendo da sempre città dell’uomo disposta a far posto a chiunque, ne ha facoltà. Lo fa accogliendo il presidente dell’Ucraina, nazione invasa dalla Russia col solo scopo di mostrare la sua protervia e il suo rifiuto assoluto all’idea che libertà e democrazia siano le fondamenta del vivere civile, con cui vuole tessere discorsi di collaborazione e, soprattutto, di pace. Roma accogliente e provvida: questa è la cittàche apre le porte a una nazione oppressa, offesa, avvilita, sconvolta, ridotta a brandelli… Al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’onore di accogliere e l’onere di mettere la pace al centro di ogni colloquio; alla premier, Giorgia Meloni, il compito di raccogliere le istanze del popolo ucraino e di farle diventare parte del nostro vivere quotidiano. Poi toccherà a papa Francesco, che della Roma accogliente e provvida è ospite e testimone, annodare fili diversi per farli diventare un unico e vero gomitolo di pace. Poi, dopo una giornata vissuta con trepidazione e speranza, inizierà l’attesa di segnali che consentano di sperare giorni nuovi e degni d’essere vissuti, condivisi, amati…
UN ANTICIPO DI QUESTI GIORNI NUOVI destinati ad arrivare, forse adesso o forse tra poco, l’ha offerta la terza edizione degli Stati Generali della Natalità sommando parole e impegni in grado di offrire quella speranza che è vera alternativa alla fuga dalla responsabilità di generare figli. Evito i contorni politici dell’importante convegno (dovevano esserci per dire di quali misure fosse lastricato il cammino ipoteticamente idoneo per superare il cosiddetto “inverno demografico” ora imperante, invece si sono accontentati di fare passerella usando i toni più adatti a impressionare e favorire voti senza azzardare ipotesi di intervento) e mi occupo invece del grido di speranza portato fin lì da un vecchio Papa, quel Francesco che non teme certo di mettere il suo abito – bianco e immacolato – a disposizione del mondo. A tutti, ieri, Francesco ha ricordato che per superare l’inverno demografico che stiamo vivendo c’è bisogno di “politiche lungimiranti” che aiutino a superare la “sensazione di precarietà” sperimentata dalle giovani generazioni”, che è necessario “alimentare la speranza”, perché la “sfida della natalità” – “centrale” per il futuro dell’Italia e dell’Europa – è “questione di speranza”.
Il Papa, dopo un rimprovero alla pretesa di far apparire “bambini”quelli che sono e devono restare solo “piccoli animali amici”(sono scene di un presente che potranno diventare “l’abitudine del futuro, stiamo attenti!”, ha ammonito) ha ribadito che la nascita dei figli “è l’indicatore principale per misurare la speranza di un popolo”. Così “se ne nascono pochi vuol dire che c’è poca speranza”. Oggi infatti “mettere al mondo dei figli viene percepito come un’impresa a carico delle famiglie”. E questo, purtroppo, “condiziona la mentalità delle giovani generazioni, che crescono nell’incertezza, se non nella disillusione e nella paura”. Vivono “un clima sociale in cui metter su famiglia si sta trasformando in uno sforzo titanico, anziché essere un valore condiviso che tutti riconoscono e sostengono”. Con la conseguenza che “solo i più ricchi possono permettersi, grazie alle loro risorse, maggiore libertà nello scegliere che forma dare alle proprie vite”. E questo “è ingiusto, oltre che umiliante”. Per Francesco “forse mai come in questo tempo, tra guerre, pandemie, spostamenti di massa e crisi climatiche, il futuro pare incerto”. E in questo contesto di incertezza e fragilità le giovani generazioni “sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà”, con “difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti”. Problemi che “interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi”. Senza contare il contesto in cui ci troviamo con “una cultura poco amica, se non nemica, della famiglia, centrata com’è sui bisogni del singolo, dove si reclamano continui diritti individuali e non si parla dei diritti della famiglia…”. Servirebbero “politiche lungimiranti”, in modo da “predisporre un terreno fertile per far fiorire una nuova primavera e lasciarci alle spalle questo inverno demografico...”. Ma, c’è qualcuno disposto a camminare su questa strada?
NATALITA’ E ACCOGLIENZA SONO le basi su cui costruire buon futuro. Però, come di fa a costruire un buon futuro se sistematicamente viene messo in discussione il diritto di vivereinsieme, qui o altrove non importa, avendo come fine la costruzione del bene comune? Ieri uno sconosciuto commentatore mi ha spiegato che il presupposto del buon vivere risiede nella capacità di concedere “diritto d’asilo” a persone e idee, chiunque esse siano e qualunque sia la loro provenienza. Alcune settimane fa l’edizione internazionale del «New York Times» ha offerto una riflessione, firmata da Jason Horowitz, che rispondendo alla domanda “l’Italia è destinata a sparire? metteva in evidenza l’aumento vertiginoso del numero degli anziani e la flessione catastrofica del tasso di natalità, che “senza interventi colossali del governo” porterebbe all’estinzione, possibile se non probabile, di sogni e speranze... Per andare oltre questo apocalittico scenario, almeno secondo l’analisi del “New York Times”, si potrebbe incominciare ridando valore al “diritto d’asilo”, che non è un semplice documento, ma il principio della pacifica convivenza, che a sua volta mette in chiaro il diritto di migrare dove vi sia la possibilità di costruire quel buon futuro messo al vertice delle comuni attese. Da qui la necessità di regole non discriminatorie sui flussi migratori e la necessità di una riflessione che tenga conto del fatto che coloro che sfidano la morte, la spoliazione e la violenza fisica per raggiungere l’Italia (o gli Stati Uniti d’America o Paesi comunque ritenuti più abitabili del proprio) non sono malfattori, ma fuggiaschi bisognosi di costruire una nuova esistenza, in pace e nel rispetto delle leggi, persone che meritano accoglienza e sforzo per una corretta integrazione.
Questa visione di insieme è dentro la storia stessa del nostro Paese, inserita in un passato che dovrebbe dare l’energia per affrontare le grandi sfide dell’oggi. Come ha ricordato l’altro ieriMarco Scotognella “la capacità di includere popoli diversissimi e di assorbirne i culti e le tradizioni, fu infatti uno dei punti di forza della politica di governo della Roma antica”. Per esempio, è noto e narrato ampiamente che Romolo, dovendo incrementare la popolazione della appena fondata Roma, creò un punto di raccolta dove un tempo v’era un recinto tra due boschi, tra l’Arce e il Capitolium. Quel luogo era sacro al dio Asylum e vi si accoglievano fuggiaschi ed esiliati che non venivano restituiti a coloro che pretendevano di catturarli. E proprio quel “diritto di asilo” fece aumentare la popolazione residente e alimentò, col tempo, un grandioso progetto politico: quello di estendere il diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti della repubblica e in seguito a quelli dell’intero impero. Roma fu, secondo Plinio, “la terra che è figlia e al tempo stesso madre di tutte le altre terre, prescelta dagli dei per rendere più luminoso il cielo stesso, per riunire imperi divisi, per addolcire i costumi, per unificare, con la diffusione della sua lingua, i linguaggi discordi e rozzi di tanti popoli e portare la cultura all’uomo e divenire in breve tempo l’unica patria di tutti i popoli di tutto il mondo”.
Che sia questo il destino di Roma? Io lo spero. E voi?
LUCIANO COSTA