Guerra finita o guerra infinita?

Dicono le cronache del giorno che in Afghanistan è finita la guerra, per altro mai dichiarata, che per vent’anni ha opposto le forze statunitensi (appoggiate dalle forze occidentali riunite nella Nato) ai terroristi che l’11 settembre 2001, sotto la guida di Bin Laden, sconvolsero New York, Washington e l’America causando tremila morti, ferendo migliaia di cittadini e sconvolgendo un’idea di democrazia fondata sulla convivenza pacifica. Quel giorno l’America disse al mondo che “l’orrendo crimine non sarebbe rimasto impunito”. E cominciò proprio da quell’affermazione la caccia agli esecutori e ai mandanti (definita guerra a tutti gli effetti) che avevano la loro roccaforte proprio tra le montagne dell’Afghanistan, sede ideale per addestrare i fanatici al terrorismo, impinguare i traffici illeciti di droga e seminare odio tra chi non si allineava al loro modo di pensare.

L’America scovò i terroristi, uccise il loro capo, fece pulizia di bande armate e fanatiche. Forse poteva bastare, ma poi, invece di lasciare quella terra al suo destino, si illuse di poter seminare perché mettesse radici solide la sua democrazia. Le cose sono andate diversamente e l’America di Biden, presidente democratico succeduto al repubblicano Trump (detto non a caso “testa-calda”) dopo quel farsesco eppur tragico assalto al Campidoglio, ha dovuto gestire quel ritiro dall’Afghanistan che tutti definivano ingestibile. E per questo, il mite presidente a cui gli americani avevano chiesto di rimettere pace e concordia dove il predecessore aveva seminato rancore e odio, è diventato il bersaglio preferito dei critici e degli oppositori, addirittura il capro espiatorio di una vicenda soltanto ereditata. Dirà la storia se e come l’America ha sbagliato, se e come ha consegnato quel che per vent’anni aveva protetto ai terroristi vestiti da taleban. Adesso c’è solo da prendere atto che in quel Paese lontano, al posto degli Usa ci sono Russia e Cina, due superpotenze che rappresentano l’esatto contrario dell’idea di democrazia vantata ed esibita dagli americani.

Da oggi, dunque, non ci sono più soldati statunitensi in Afghanistan. L’ultimo volo è partito alla mezzanotte di Kabul, alle soglie del 31 agosto. Dopo 20 anni finisce dunque la presenza militare di Washington nello stato mediorientale. La notizia della partenza dall’Afghanistan dell’ultimo lembo di America è stata salutata in città da spari e festeggiamenti. “Abbiamo fatto la storia” ha detto un responsabile dei taleban dopo la conferma dell’ultimo decollo, mentre nelle vie della capitale si sono sentiti colpi di arma da fuoco e grida di entusiasmo da parte delle milizie degli “studenti coranici”. Subito dopo il portavoce dei taleban, Zabihullah Mujahid, ha testualmente dichiarato. “Stasera alla mezzanotte in punto gli ultimi soldati americani hanno lasciato l’aeroporto di Kabul e il nostro Paese ha conquistato la completa indipendenza. Sia lode a Dio”.

Nell’ultimo giorno a Kabul, gli americani hanno portato fuori dal Paese altre migliaia di persone considerate a rischio di rappresaglia. Il totale degli evacuati, a partire dal 14 agosto, è salito così a 116.700., Ma tantissimi sono rimasti indietro. Tra questi anche cittadini statunitensi che non sono riusciti a raggiungere in tempo l’aeroporto. Per tutti si apre ora la difficile strada della diplomazia. Ma come ha dimostrato ieri la seduta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non sarà una diplomazia univoca. Russia e Cina, infatti, si sono astenute su un documento che semplicemente chiedeva di garantire corridoi umanitari per coloro che avendone diritto potevano chiedere di lasciare il Paese. Non è un bel segno.

Così, adesso in molti si chiedono: “La democrazia è esportabile?” La conclusione della guerra in Afghanistan induce a rispondere “No, non è esportabile, sicuramente non con le armi”. In agosto, però, un confronto ospitato dal “Corriere della sera” e da “Repubblica”, aveva mostrato altre risposte. Sorprese allora Ernesto Galli della Loggia dicendo: “Peccato che a invocare l’argomento dell’incompatibilità culturale rispetto alla democrazia siano regolarmente non già gli eventuali diretti interessati, ma solo e sempre coloro che sono arrivati a governarli”. Da quei l’affermazione più sorprendete da parte di un notista solitamente disposto a ragionare piuttosto che a sentenziare: “Sì, in certi casi si può esportare la democrazia con la guerra”. E di questo “può avere dei dubbi solo chi dimentica che da un paio di secoli proprio questo è successo innumerevoli volte; però se si fa una guerra del genere, allora bisogna assolutamente vincerla, costi quel che costi”.

Hanno sorpreso, per la verità, anche gli scritti di Giovanni Sartori ripubblicati dal “Corriere” a quattro anni dalla sua scomparsa. Diceva Sartori: “La democrazia è esportabile, ma non dappertutto e non sempre”. L’ostacolo più significativo, per il politologo, erano le religioni monoteiste, come quella islamica che “a livello di massa è rigida, sclerotizzata, e cioè mancante di flessibilità, adattabilità e capacità di risposte creative”. Da parte sua Sabino Cassese ha sostenuto l’esportabilità della democrazia, appellandosi all’Onu al suo “riconoscimento universale del diritto dei popoli alla democrazia”: forse esportabile anche con la forza degli eserciti? Cassese non lo ha affermato in modo esplicito. E’ però sembrato favorevole alla forza dell’Onu, come in Bosnia 1992-1995, arrivando a concludere che “più democrazia vuol dire un mondo più pacifico”. Da parte sua Ezio Mauro, da una posizione più sfumata, ha chiamato in causa l’Europa rinnovando la richiesta di “un patto da rinegoziare con l’America”. Quanto ai modi, nessuna indicazione.

Resta dunque la domanda: “Come accettare che eguaglianza e libertà siano merci confinate in una sola zona del mondo?”. Già, come?

LUCIANO COSTA

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