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Guerra, ritardi, barche e sottomarini…

GUERRA IN RUSSIA? – Le notizie della notte e delle prime ore del giorno dicono che la Russia non solo assedia e invade (assedia e invade arbitrariamente da quasi cinquecento giorni l’Ucraina) ma è a sua volta scombussolata-invasa-assediata dalle sue stesse forze e dai suoi stessi alleati. Infatti, succede da stanotte che i mercenari al suo soldo, quelli della Wagner, stiano assediando città e centri di potere russi col dichiarato intento di “mettere Putin alle corde” e agevolare “la sua uscita di scena”. Per alcuni commentatori, quello in atto sarebbe un vero e proprio “colpo di stato”. Le immagini viste stanotte e questa mattina mostrano città e paesi in cui agiscono carri armati ribelli al regime russo. L’Europa e il mondo si interrogano sul da farsi. Per il momento però prevale l’attesa.

ITALIA IN RITARDO? – Questa volta il ritardo non è una svista, ma una scelta che penalizza migliaia di statali andati in pensione ai quali il trattamento di fine rapporto non è stato corrisposto o semplicemente mal corrisposto. Adesso, però, basta ritardi, in certi casi di anni, nel pagamento della liquidazione ai dipendenti statali. Differire il versamento dei trattamenti di fine servizio a chi va in pensione per raggiunti limiti di età o di servizio rappresenta una «lesione delle garanzie costituzionali» del lavoratore. Per questo è «indefettibile» e quindi «prioritario» un intervento riformatore del Parlamento perché rimuova questo “vulnus”. Il richiamo arriva dalla Corte costituzionale che già in passato aveva rivolto un analogo monito alle Camere rimasto inascoltato. Stavolta però la Corte costituzionale avverte: «Non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa» sui «gravi problemi» segnalati.

Sotto accusa l’articolo 3, comma 2 del decreto 79 del 1997- che ha introdotto un termine dilatorio di un anno per il versamento della liquidazione- e l’articolo 12, comma 7, del decreto 78 del 2010, che ha invece previsto la rateizzazione del Tfs. I dubbi di costituzionalità erano stati sollevati dal Tar del Lazio e per la Consulta sono fondati. Tuttavia le questioni sollevate sono state giudicate inammissibili perché il modo con cui superare questa ferita attiene alla discrezionalità del legislatore, considerato «il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento comporta». Spetta dunque al Parlamento stabilire mezzi e modalità di attuazione di una riforma che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria e assicuri una «gradualità» di intervento, magari partendo dai «trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri». In ogni caso, rinviare il pagamento della liquidazione- spiega la Consulta nella sentenza redatta dalla giudice Maria Rosaria San Giorgio – contrasta con «il principio costituzionale della giusta retribuzione», di cui tali prestazioni costituiscono una componente. Si tratta poi di «un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana», nota la Corte.

Il costo della “velocizzazione” si aggira, secondo le stime dell’Inps, intorno ai 14-15 miliardi. «Governo e Parlamento provvedano subito», chiede la Uil che vede nella pronuncia della Consulta un «risarcimento» per i lavoratori. La Cgil minaccia una class action in caso di inerzia del governo e ricorda che «in questi anni i tempi di liquidazione del Tfs e Tfr per i dipendenti pubblici hanno raggiunto posticipi fino a 7 anni». La Cisl, ricordando le iniziative della sigla sul tema, chiede l’avvio immediato di un «confronto tra Parlamento e sindacati».

IL SOTTOMARINO E IL BARCONE – I rottami individuati in fondo al mare sono quelli del Titan. Il senso di sconfitta è enorme, direttamente proporzionale alle impressionanti forze messe in campo per le ricerche del piccolo sommergibile: boe acustiche per captare eventuali rumori, sottomarini e navi arrivati dall’Europa e dotati di robot in grado di immergersi a profondità estreme, numerose imbarcazioni della Guardia costiera statunitense, perfino tre aerei per pattugliare il braccio di mare… Una corsa contro il tempo senza limiti di budget e purtroppo rivelatasi inutile nel salvare cinque vite ore sperse in fondo all’Atlantico, forse naufraghe per l’eternità. Shahzada, uomo d’affari inglese di origini pachistane e il figlio 19enne Suleman; il miliardario inglese Hamish; lo studioso francese Paul-Henri; e infine Stockton, l’organizzatore della spedizione sulle tracce del Titanic. Ciascuno di loro ha un nome, un volto, una storia.

Non ha goduto dello stesso privilegio la gran parte delle vittime di un altro naufragio, accaduto quasi in contemporanea con quello del piccolo Titan. Fin dal numero, ancora all’ingrosso: oltre agli 82 morti accertati e ai 104 salvati, si stimano più di 600 persone disperse. I corpi di diverse centinaia di loro, donne e bambini, potrebbero essere ancora intrappolati nella stiva del peschereccio colato a picco al largo delle coste greche nella notte tra il 15 e il 16 giugno. Se il numero delle vittime è ancora incerto e i loro nomi non saranno mai conosciuti, sappiamo però che alcuni si sono imbarcati per fame, altri per persecuzione, altri perché qualcosa – una speranza – e qualcuno – un familiare – li attendeva sull’altra sponda del Mediterraneo.

Non per un’avventura, non per una esplorazione, ma per fame, per speranza. Per futuro.

E però, che destino diverso, da questa parte del mondo. Naufraghi restati senza aiuti, o perfino vittime di soccorsi tardivi, inadeguati, insufficienti, perfino maldestri. Naufraghi per la cui salvezza nessuno ha fatto il conto alla rovescia: quanto tempo rimane prima che lo scafo si ribalti? Quanto ossigeno – anche qui, l’ossigeno! – resta prima che nella stiva bambini e donne inizino a soffocare? Quanto tempo possono stare in mare prima di arrendersi al freddo e al buio coloro che si sono buttati giù dalla barca?

Il contrasto è straziante, a pensarci fa male. Nell’Atlantico un copione da disaster movie ha tenuto l’opinione pubblica mondiale con il fiato sospeso: cinque agiati occidentali alla ricerca dell’avventura estrema a bordo di un piccolo cilindro a tenuta stagna, la scomparsa dai radar, i rumori captati dagli abissi come disperati Sos, e poi la corsa contro il tempo, la mission impossibledei soccorsi, infine l’individuazione dei rottami. È tutto come un film, peraltro già vissuto tante volte in situazioni anche molto differenti: ricordiamo l’angoscia suscitata dal dramma dei 118 uomini intrappolati nel sommergibile della Marina russa Kursk nel 2000, e, di contro, l’entusiasmo globale per il salvataggio di 12 giovani thailandesi sepolti per 15 giorni in una grotta nel 2018. Angoscia ed entusiasmo legittimi e condivisibili: ogni vita umana è preziosa, salvarne anche una sola vale qualsiasi sforzo e la perdita anche di una sola causa dolore.

Ma allora, perché questo tiepido sdegno per l’ennesima strage nel Mediterraneo? Perché questa labile partecipazione a un lutto che dovrebbe essere universale? Perché questa corta memoria per una carneficina che – lo dirà con certezza l’inchiesta – forse è stata causata anche da negligenza, se non addirittura dalla volontà di spingere lontano, di non vedere, di scaricare la responsabilità ad altri? Il mondo ha trattenuto il fiato per cinque uomini naufraghi in fondo all’Oceano Atlantico, ma si gira distratto dall’altra parte di fronte al Mediterraneo diventato un cimitero. Forse perché, come si è letto sui social, i morti davanti alla Grecia, così come quelli davanti alla Libia, alla Tunisia, a Lampedusa, alla Calabria, non erano naufraghi. Erano poveri.

(A cura di LUCIANO COSTA)

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