Ho conosciuto don Ciotti e ne conservo il ricordo, perché dei “testimoni” (e lui è un testimone vero di vangelo e di impegno sociale) è impossibile non conservare i tratti, le parole, gli insegnamenti. Diceva allora, in un incontro affollato, che “farsi illusioni sulla possibilità di sconfiggere i trafficanti di droga e le cosche mafiose non serviva”, essendo evidente, aggiungeva, che quel che serve è “cambiare mentalità, passare dalla parole ai fatti, costruire scuole e farle funzionare, far posto alla collaborazione, mettere solidarietà al posto dell’egoismo, andare dove è più difficile vivere, insegnare a vivere nella legalità, dare ai ragazzi e ai giovani la possibilità di uscire dalla desolazione imposta dai violenti e approfittatori schierandosi al loro fianco e accompagnandoli dove hanno diritto di andare, cioè in una società giusta, liberi e felici….”. Ho conosciuto Matteo Salvini quando “smargiassava” per le vie di Ponte di Legno annunciando che lui e nessun altro era il futuro, e non ne conservo il ricordo, perché ricordare smargiassi e parolai non ne vale certo la pena. Ora ritrovo don Ciotti e Salvini sulle prime pagine, uno per aver espresso preoccupazioni sul futuro del ponte sullo Stretto e l’altro per aver insultato il prete reo di dissentire al verbo leghista e per questo invitato a espatriare. Credo che don Ciotti abbia liquidato il “celodurista” con una semplice scrollata di spalle. Non credo invece che Salvini possa salvarsi dall’essere nominato socio ad honorem della società del “raglio d’asino” (quello che sicuramente non giunge in cielo), di sicuro la sua preferita.
Un prete del sud, scrivendo a Vatican News dopo la polemica innestata dal leader della Lega, dice: “Chi sia don Luigi Ciotti lo sanno tutti, in Italia e all’estero. Che cosa abbia rappresentato per la lotta alle mafie, per i familiari delle vittime innocenti, per l’educazione alla legalità è testimoniato da decine di associazioni, migliaia di persone, semplici cittadini, magistrati, professionisti, politici, giornalisti, parlamentari. Don Ciotti – aggiunge – può essere studiato da tanti punti di vista, tutti giusti, ma tutti parziali, perché egli è, innanzitutto e soprattutto, un prete. Un prete, costretto a vivere sotto scorta, perché ha preso terribilmente sul serio il comandamento di amare il prossimo, concretamente, sporcandosi le mani, là dove si trova, nelle condizioni in cui si trova, correndo il rischio di essere insultato, vilipeso, ucciso…” soprattutto perché la sua “è una voce limpida e profetica”, che dice come le mafie siano “asfissianti, velenose, contagiose” tanto se “viste da lontano, quando possono apparire solo come un fenomeno, parassitario, sanguinario – uno dei tanti – da combattere con più o meno severità”, quanto se viste da vicino, quando appaiono per quel che sono: non entità astratte, bensì “entità in cui ci sono i mafiosi, uomini e donne, in carne e ossa, con nome, figli, clan, cosche, armi, alleanze, interessi”.
Il prete del sud dice anche altro. Per esempio dice che “per conoscere qualcosa delle mafie devi avere il coraggio di sentirne il puzzo, vincere la paura, addentrarti nei meandri dei vicoli, dei quartieri, delle città”; che per conoscere i mafiosi “devi, se e quando è possibile, avvicinarli, discutere con loro, con le loro vittime, con i vicini di casa, con i politici di riferimento, collusi e corrotti, e con quelli che li combattono… devi raggiungerli in carcere, seguirne i processi, passare le notti sulle carte da studiare; per capire devi andare a ritroso, arrivare alle origini, chiederti come e perché abbiano attecchito e proliferato al Sud”. Segue l’amarissima constatazione che mette in primo piano la predilezione di mafie e mafiosi “per i fiumi di denaro stanziati per le grandi opere pubbliche…”, compresa quella che prevede la costruzione del ponte sullo Stretto. Don Ciotti lo ha detto. Ci ha messo in guardia. Ne aveva il diritto, ne sentiva il dovere. “Lui – s cruve il prete del sud – non è, non vuole, non può essere un politico. È un prete. Non ha interessi di parte. Non ha da organizzare la prossima campagna elettorale. Non ha da sistemare i figli. Sente solo la responsabilità di mettere a disposizione l’immenso patrimonio accumulato in questi lunghi anni di lotta alle mafie. Lo ha fatto, come nel suo stile, nella più totale libertà”.
A Matteo Salvini non è piaciuto quello che don Ciotti ha detto? Nessun problema, è un suo diritto. Ma è anche diritto mio e spero di tanti altri, ricordare al “celodurista-leghista”, di certo più smargiasso che pensator intelligente, oggi in libera uscita col titolo di ministro bene in vista, che le parole, prima di metterle in circolazione, è meglio pesarle e pensarle. Che dopo, magari, son degne soltanto di essere seppellite da una risata.
Tutto ciò non offusca il problema del ponte sullo Stretto che porta con sé un sacco di dubbi e di misteri. Gian Antonio Stella, sul “Corriere della sera” ha giudicato l’invito a espatriare, con cui Salvini ha liquidato il pensiero di don Ciotti, “un insulto insensato e offensivo”. Poi ha proposto di fermarsi a riflettere sulla “cagnara scoppiata tra i partiti dopo la sparata di Matteo Salvini contro il fondatore di Libera”, che è “una rissa dove ciascuno tira acqua al proprio mulino al di là del merito delle cose, che rischia dunque di occultare il tema centrale: ci sono o no anche dei rischi dietro la febbricitante corsa al Ponte di Messina ripartita di colpo dopo anni di promesse, rinvii, rinunce, oblio?”. Sfogliando il poderoso archivio del “Corriere”, Stella mette in vista “la decennale ostilità della Lega, Salvini compreso, contro il Ponte; e le decennali battaglie di don Ciotti”. Che è stato, è e resta, dice il giornalista, “un tornado, per il sonnacchioso quieto vivere”. Immagino di chi smargiassando è costantemente e solo a caccia di voti. O no?
LUCIANO COSTA