di Marco Bencivenga –
All’inizio abbiamo studiato medicina: per difenderci dal virus ci siamo improvvisati pneumologi, virologi, immunologi, epidemiologi. Ora non basta più. Ora, per capire l’evolversi della pandemia, dobbiamo ripassare i fondamenti di matematica. E di statistica. Perché sono i numeri a decidere il nostro destino, a determinare quale colore dev’essere attribuito a ogni territorio e, di conseguenza, a quanta parte della nostra libertà individuale dobbiamo rinunciare, in base al fatto che viviamo in una zona gialla, in una zona arancio o in una zona rossa. Il bello dei numeri — si dice — è che sono oggettivi. In realtà, è vero soltanto a metà, perché i numeri possono e devono essere interpretati. E tutto dipende da come si interpretano. Facciamo un esempio concreto, per capire: «Possibile che in Italia il Covid abbia fatto più morti che negli Stati Uniti?», chiedeva ieri un tale che se ne stava in coda davanti a una forneria. La risposta è: dipende. Perché se si guardano i numeri assoluti, non c’è paragone: secondo il report della Johns Hopkins University, finora i morti Covid Usa sono stati 254.897 e gli italiani 49.261. In proporzione i morti americani sono stati cinque volte tanto (per l’esattezza 5,23). Ma se contassimo i morti in rapporto alla popolazione? Negli Stati Uniti vivono 334 milioni di persone, in Italia 60 milioni. Rapporto: cinque a uno (per l’esattezza 5,57). Significa che la mortalità pro capite nei due Paesi è molto simile, quasi identica. E che la risposta alla domanda iniziale fronte forneria cambia: da No (l’Italia non ha avuto più morti degli Usa) a Nì (in proporzione ha avuto gli stessi morti).
Eppure, gli Stati Uniti sono la terra dei negazionisti (Donald Trump in testa) e l’Italia la nazione occidentale che per prima ha dichiarato il lockdown totale la scorsa primavera. Evidentemente, i numeri nudi e crudi da soli non bastano a spiegare tutto. Per esempio, a determinare la mortalità del virus — oltre alla diversa rigidità delle misure preventive — può essere in fattore «esterno» come il grado di efficienza del sistema sanitario. In questo caso diventa significativo il confronto fra positività e decessi: negli Usa (254.897 vittime su 11.963.509 contagiati) in media è morto un malato ogni 46,8 positivi; in Italia (49.261 vittime su 1.380.531 contagiati dal virus) uno su 27,7, il quaranta per cento in più. E la risposta alla domanda iniziale, di conseguenza, cambia un’altra volta: in Italia il Covid-19 è stato più letale che negli Stati Uniti. Certo, un’attenuante c’è: quando la pandemia è scoppiata in Italia, non si sapeva come trattarla, per cui la mortalità iniziale è stata molto alta. Poi gli italiani hanno insegnato al mondo cosa fare e gli altri paesi ne hanno giovato, grazie a un incessante scambio di informazioni fra marzo e aprile, che hanno consentito ai medici americani (e non solo) di correre ai ripari e organizzarsi per tempo. Ma il bilancio resta negativo.
E non ci consola neppure il confronto con il secondo e con il terzo Paese al mondo più colpiti dalla pandemia: in Brasile è morto in media un positivo ogni 35,7 (168.613 su 6.029.164), in India addirittura uno ogni 68,2 (132.726 vittime su 9.050.597 contagiati). Tutto dipende da quali numeri si guardano e da come li si interpretano. In questo caso, a incidere pesantemente sul tasso di letalità del virus — fra i vari fattori — è l’età media della popolazione: più alta in Italia (45,2 anni), più bassa negli Stati Uniti (38,2), bassissima in Brasile (29,0) e in India (28,4), addirittura incredibile in Africa (18 anni!).
Un simile divario da solo dovrebbe suscitare una profonda riflessione sugli squilibri e sui destini del mondo: purtroppo, invece, la demografia è uno dei campi meno considerati dalla politica. Ed è un grave errore perché contiene la risposta a molti degli interrogativi e dei temi più importanti per il futuro dell’umanità: dal crollo della natalità in Europa (e in Italia in particolare alla pressione migratoria dal Sud al Nord del mondo, dall’approvvigionamento alimentare (e di acqua potabile!) di interi continenti alla sostenibilità ambientale di poche megalopoli, dalle possibilità occupazionali per le nuove generazioni alla desertificazione dei territori più periferici, spesso trasformati in discarica dell’intero pianeta.
La demografia spiega questi fenomeni (e molto altro) perché nei numeri c’è spesso la verità che gli occhi non vedono: basta andarla a cercare e saperla guardare.
Senza dimenticare che, accanto alla conoscenza, c’è una variabile poco scientifica, ma decisiva: la percezione umana. Non conta solo qual è la realtà, ma anche come viene percepita. Lo dimostra sempre la matematica, in questo caso il calcolo della probabilità: se la statistica dice che un pedone, attraversando la strada senza verificare se sta arrivando un’auto o un bus, in media ha l’80% di possibilità di salvarsi (certo, dipende dal tipo di strada, dall’ora, dalla consistenza del traffico…), quel pedone avrà la sensazione di poterlo fare in discreta sicurezza, sottovalutando il peso di quel 20% rimanente di probabilità di essere investito.
Ma basta dire che il 20% corrisponde a una possibilità su cinque di essere travolto e ucciso per cambiare immediatamente la percezione del pericolo: scommettiamo che, messa così, nessun pedone che solo poche righe fa si sentiva al sicuro attraverserà la strada senza controllare se proprio in quel momento sta arrivando un’auto o un bus? Eppure le probabilità sono le stesse di prima. Basta volerle guardare. E imparare a leggerle.
MARCO BENCIVENGA
Direttore del quotidiano “La Provincia di Cremona”