E’ un ritornello insistente, si chiama “Squid Game” ed è una serie televisiva pensate e realizzata in Corea del Sud, messa in rete da Netflix (un colosso che serve in streaming una variegata varietà di serie tv e film), che investe-coinvolge-ammalia-abbaglia e addirittura sconvolge il mondo dei giovani, soprattutto ragazzi e adolescenti. Racconta le avventure di centinaia di persone che hanno problemi finanziari e che per risolverli accettano uno strano invito a una competizione con una varietà di giochi per bambini avendo come scopo la conquista di un grosso premio in denaro, che si potrà avverare solo mettendo in conto la propria sopravvivenza. Il format, o la trama se preferite, della serie “incriminata” è piuttosto semplice: tutto avviene in Corea del Sud dove persone comuni estremamente indebitate e perseguitate dai creditori vengono reclutate da un uomo misterioso per partecipare ad una serie di giochi in cui il vincitore si aggiudica un’enorme somma di denaro che risolverebbe ogni suo problema e cambierebbe la sua vita per sempre. Le attività a cui devono prendere parte i partecipanti sono semplicemente una riproduzione di famosi giochi per bambini, alcuni conosciuti anche da noi occidentali – come “Un due tre stella” -, altri invece conosciuti solo in quella fetta d’oriente. Secondo il copione, ogni volta che un concorrente perde ad uno di questi giochi, viene eliminato. E se non fosse che l’eliminazione dal gioco coincide con la morte più o meno violenta del giocatore, tutto sarebbe molto ordinario. Invece, Squid Game è diventato un caso, addirittura un pericolo. Infatti molti giovani, compresi molti ragazzi e bambini, hanno deciso di riprodurla nella vita reale ed in particolare a scuola. Diversi genitori hanno raccontato di atti di violenza e bullismo nei confronti dei loro figli come “prezzo” da pagare per essere stati eliminati durante un gioco, altri invece sarebbero stati isolati dai compagni o presi in giro per essersi rifiutati di partecipare. La serie, almeno in Italia, è vietata ai minori di 14 anni. Ma siccome non si capisce bene dove incomincia il divieto e dove si afferma il volere dei “sotto l’età imposta”, è fiato sprecato. Nel frattempo la serie imperversa… Che cosa si può fare per arginare il fenomeno? Non lo so. Però, cercando lumi, ho letto quel che ha scritto Alberto Pellai (medico, psicoterapeuta, ricercatore e scrittore) in modo chiaro, esauriente e propositivo. Ve lo propongo con preghiera di attenta lettura. (L. C.)
…ma come ci si può difendere?
In queste settimane chi si occupa di infanzia e adolescenza ha sentito parlare e ha parlato di Squid Game: vera emergenza educativa o il solito polverone sollevato da adulti spaventati che non sanno come adeguarsi “a un mondo che cambia”? Spesso la questione è stata affrontata proprio in questi termini: tutto o niente. Personalmente, dopo aver scritto sulla mia pagina Facebook un post dove riferivo che molti insegnanti della primaria erano preoccupati del fatto che numerosi loro alunni erano diventati spettatori della serie e poi inscenavano nei loro giochi situazioni viste (post che ha raggiunto a oggi quasi cinque milioni di persone) ho ricevuto migliaia di commenti. Molti mi hanno scritto invocando la qualità della serie tv a giustificazione del suo successo: siccome è molto valida e ben scritta e di alto pregio artistico, il problema non esiste. Se i genitori non controllano i figli, il problema non è della serie tv ma della famiglia che non fa il suo dovere. Ma se andate a leggere quello che dicono i genitori, scoprirete che il problema è enorme e molto più vasto.
I genitori si sentono impotenti di fronte a “corazzate” mediatiche che entrano massicciamente nelle vite dei più piccoli senza che nessuno l’abbia voluto o desiderato. Questi fenomeni mediatici acquisiscono una popolarità così enorme e così veloce da diventare, inevitabilmente, parte della vita di tutti, anche dei più piccoli. Il problema è che in una società dove tutto è fluido e immediatamente fruibile ed accessibile con tre click, i bambini sono proprio i più esposti. Perché a loro, quei tre click, danno l’illusione di essere capaci di fare un salto in avanti nella vita e nella crescita (che bello poter avere a disposizione cose da grandi quando sei piccolo!) e inoltre gli fanno sperimentare un’immediata sensazione di inclusione con il gruppo allargato (tutti ne parlano e lo conoscono, quindi anch’io devo essere in grado di entrare in contatto con “l’esperienza del momento”). È in questo modo che la socializzazione dei più piccoli si sottomette a riti di influenzamento collettivo, in cui il marketing che crea fenomeni mondiali di popolarità istantanea e velocissima, “aggancia” prima di tutti proprio i più vulnerabili in questo senso: ovvero i bambini e i minori più in generale.
C’è bisogno di fare una profonda analisi di ciò che sta accadendo all’infanzia proprio in funzione del fatto che l’abbiamo resa iper-connessa e le abbiamo messo in mano strumenti che con tre click permettono di fare e vedere tutto. L’unica competenza reale che abbiamo noi genitori è rallentare tutto questo, ritardando il più possibile l’accesso a questo genere di esperienze.
E qui ritorna il concetto, approfonditamente espresso nel libro “Vietato ai minori di 14 anni (De Agostini) che ho scritto con Barbara Tamborini e che mai come in questi giorni ci sembra necessario aver scritto: forse è davvero arrivato il tempo per noi adulti di comprendere che il divieto può essere una via “educativa” e che la responsabilità di vietare certe cose alla fine rimane solo nelle nostre mani e dipende da noi. Anche se sarebbe meglio trovare collaborazione anche da parte dello Stato e di un sistema nazionale (o internazionale) di garanzia in grado di allearsi con i bisogni educativi dei nostri figli.
Oggi più che mai c’è bisogno di ciascuno di una presa di posizione di noi genitori, di noi docenti, di noi adulti se vogliamo proteggere i nostri figli da tutto ciò che il “mercato” fa entrare nelle loro vite, incurante dei danni e degli effetti indesiderati che ne potrebbero derivare. Dobbiamo diventare protagonisti di una “alleanza” che ci permetta di creare una vera e propria comunità educante. È ora di sviluppare una mente adulta comune, che permette di vedere con occhi lucidi e competenti ciò che fa bene e ciò che fa male a chi cresce. È solo in questo modo che si costruisce un vero villaggio in grado di far crescere un bambino.
Sapere che la serie tv Squid Game è ufficialmente vietata ai minori di 14 anni e ciò nonostante una miriade di bambini e bambine la stanno guardando è il segno evidente che questo “villaggio” non esiste. E lo dimostra il fatto che bambini sempre più piccoli — ovvero i nostri figli — si trovano immersi sempre più negli schermi, che nella vita reale, incontrando la morte di Squid Game senza magari aver mai sentito nominare né Geppetto, né il Gatto e la Volpe.
Guardiamoci in faccia, noi genitori: smettiamola di essere maldestri Geppetti i cui figli vengono risucchiati nella pancia della balena da Lucignoli, Gatti e Volpi che hanno invaso il villaggio dove loro crescono. Forse, siamo noi adulti, per primi, a non sapere più distinguere chi parla con la saggezza del Grillo Parlante e chi invece lo fa seguendo il copione del Gatto e la Volpe. Leggiamo, approfondiamo, parliamo, dialoghiamo, condividiamo pensieri e accendiamo riflessioni. Chi si deve occupare di “vietare ai minori di 14 anni” una serie di esperienze inadatte ai bambini? Da dove dobbiamo/possiamo cominciare noi genitori? Il dibattito è aperto e deve continuare.