Non è necessario essere patiti-fanatici-esaltati o innamorati della bicicletta per fare un inchino al nuovo Giro d’Italia che parte oggi da Torino e augurargli buon viaggio. Infatti, benché sia una corsa riservata ai migliori atleti in circolazione, il Giro rimane un concentrato di passione e di amore a cui è difficile sottrarsi. Parte qui e arriva là, attraversa paesi e città, scavalca colline e montagne, sollecita ovunque attenzioni e manifestazioni che in tempi migliori si chiamavano feste di popolo e che adesso, in tempo di pandemia, debbono accontentarsi di andare in scena (con mascherine, guanti e distanziamenti al seguito) tra un susseguirsi di transenne e di dozzinali cartelloni su cui troneggiano non gli evviva ma i divieti.
Il Giro era una festa… Ricordo piazze e strade interessate dal passaggio della carovana – un attimo fuggente e improvviso – che non ce la facevano a contenere la folla; rivedo i cento ragazzini che portati a vedere passare il Giro cantavano a chiunque passasse “dai che ce la fai” riservando i “viva Bartali, viva Coppi, viva Pinco e anche Pallino” (veri esempi di antesignana par condicio) a quelli che stavano in testa al gruppo; mi ritrovo tra i centomila che un giorno neppure tanto lontano si erano dati appuntamento sul Mortirolo, mitica montagna delle Alpi bresciane, per tributare al piccolo-grande corridore che giorno dopo giorno costringeva i suoi simili a competere per arrivare almeno secondi – si chiamava Marco Pantani, veniva dal mare, sorrideva alla vita, sperava un buon futuro, aveva amici dentro la corsa e anche tanti nemici fuori dalla corsa – giusta gloria e meritato affetto: centomila padroni della strada e dei prati, centomila delusi e arrabbiati per l’improvvisa esclusione del loro campione dalla competizione.
Oggi dunque a Torino incomincia il Giro d’Italia, edizione numero 104, con 23 squadre di 8 corridori ciascuna, 3.479 chilometri da percorrere, 13 regioni della penisola da attraversare prima di raggiungere, domenica 30 maggio, la città di Milano, sua residenza ufficiale. Nel suo girovagare il Giro saluterà 160 anni dell’unità d’Italia, i 700 anni dalla morte di Dante, i 90 della maglia rosa e tanto altro. Tutto questo perché il Giro, lungi dall’essere un semplice evento sportivo o anche sociale, “è la storia di un popolo e di una nazione”, una storia intrisa di fatica, passioni e – perché no? – di quella “fede cristallina nel Dio di tutte le consolazioni e nella sua dolcissima madre”, che oggi è magari fuori moda, ma che ieri era una componente essenziale dell’essere e del divenire del popolo. Tanto è vero che papa Pio XII, mentre correva l’anno 1949 “elesse e proclamò la Madonna del Ghisallo patrona dei ciclisti, alla quale schiere di campioni e di comprimari hanno portato in dono e come ex voto la propria maglia o addirittura la loro bicicletta”. Se questo modo di intendere la devozione alla Madonna vi fa sorridere, sappiate che un grande come Gino Bartali non aveva certo vergogna di pregare prima durante e dopo ogni corsa. “Credo che il faticare in sella a una bicicletta – scrisse al cardinale Elia dalla Costa, suo amico fraterno – sia ciò che più si avvicina alla preghiera. Quando muovo i pedali –aggiungeva Ginettaccio – percepisco una vicinanza con il creato, con il grande mistero che ci accompagna nella vita. Non vorrei sembrarle blasfemo o irriverente a dirle queste cose – concludeva –, ma esiste in me una vicinanza tra la bicicletta e la funzione religiosa”.
“Anch’io – ha scritto Attilio Nostro per Avvenire -, al pari di Ginettaccio, non desidero essere blasfemo, ma il mio pensiero corre al 19 luglio del 1997, quando Marco Pantani tornò al Tour dopo un grave infortunio che lo aveva condizionato per due anni. Quel giorno Pantani riuscì nell’impresa di scalare tra due ali di folla i 21 tornanti dell’Alpe d’Huez: 14 chilometri di dolore, sudore e fatica che diventeranno la sua rinascita e la sua esplosione”. L’anno dopo, infatti, Marco vinse di qua e di là dell’Alpe: Giro d’Italia e Tour de France furono suoi e nostri, perché in quelle vittorie “c’eravamo anche noi, con le nostre storie e le nostre passioni”.
Oggi incomincia il Giro d’Italia, un concentrato di applausi e di fatiche. Alla faccia di chi reputa il ciclismo e i corridori pedine nelle mani del business, è proprio la fatica che si consuma su strade impervie e rese ancora più ostiche dalla fantasia degli organizzatori a fare la differenza e a sollecitare rispetto e solidarietà. Il Giro rimette al centro delle passioni sportive uomini veri, coraggiosi, adusi a masticare polvere e sudore comunque e sempre disponibili alla critica, a mendicare comprensione e partecipazione alla loro avventura. Non sono esperto della materia, solo curioso e affezionato. Non da oggi, ovviamente.
Le mie esperienze di ciclismo, come conviene a chi di anni sul groppone ne ha accumulati parecchi, appartengono infatti alla notte dei tempi, a quando, anno 1962, toccò a Salò e al lago di Garda ospitare i campionati mondiali di ciclismo. Causa intoppi e mal di pancia improvvisi, serviva qualcuno che si occupasse dell’evento e raccontasse la fatica dei corridori. In mancanza di cavalli il direttore fece galoppare l’asino di turno, cioè il sottoscritto. Vinsero Stablinski tra i professionisti e un certo Renato Bongioni, bresciano di Ome, tra i dilettanti. Le pagine che cantarono le due imprese furono un condensato di emozioni prive di tecnica e ricche soltanto di “amore” per il lavoro e la conseguente fatica esercitati dalla massa dei corridori. Di quell’unica e purtroppo mai ripetuta esperienza giacciono in un cassetto due lettere: una di un ragazzo che chiedeva lumi sul come diventare “bongioniano” e vincente (alla quale non abbiamo mai risposto), l’altra di una mamma che ringraziava per non aver letto esaltazione alcuna dei campioni e, invece, tanta passione e solidale rispetto per la professione, dura e certo non invidiabile, dei corridori (alla quale rispondemmo nell’unico modo possibile: ringraziando per aver apprezzato lo sforzo anche educativo messo in campo).
Trentacinque anni dopo, anno 1998, mi rituffai tra ruote, telai, borracce e fatiche con l’unico scopo di raccontare quel che Marco Pantani avrebbe fatto per il godimento dei centomila accorsi a salutarlo e per dar lustro alla maglia rosa che indossava. Marco non arrivò al Mortirolo: bloccato da ematocrito troppo alto restò a Madonna di Campiglio in attesa di verifiche e di verità. Sulla montagna bresciana apparve il suo fantasma: vagava tra refoli di vento, scompigliava pronostici, faceva versare lacrime dolorose per chi sperava nel suo trionfo, vaporose e felici per chi già sognava di salire dove lui, fuori corsa, certamente non sarebbe salito. Sappiamo come la storia di Pantani è tragicamente finita; non sappiamo se tutta la verità sia stata onorata. Resta però il ricordo di un campione…
Oggi parte il Giro e qualcuno, sono sicuro, dedicherà a Pantani (ma anche a Bartali, Coppi, Gimondi, Moser e chissà quanti altri) un pensiero e un applauso. E come sempre la bicicletta sarà osannata, magari anche invocata quale panacea di tutti mali fanciulleschi, giocattolo da regalare e lezione che i papà (ma anche le mamme) continueranno ad impartire ai pargoli vogliosi di sentirsi forti e liberi perché capaci di sfidare le leggi gravitazionali e rimanere in perfetto equilibrio su di un trabiccolo che non ha motivi per restare in piedi da solo.
Oggi, per incominciare, il Giro corre in una Torino (dove 160 anni fa ha preso forma l’Unità d’Italia) vestita a festa, orgogliosa del suo passato e del suo presente. Oggi un certo Fatica, mitico corridore senza Patria, vincerà la prima tappa mentre tutti gli altri resteranno dietro a lui in fila ordinata rimirando la sua Maglia Rosa. E’ il Giro d’Italia, un Giro forse destinato a rimettere l’Italia in giro, sicuramente un’occasione per rilanciare l’immagine del Bel Paese, che la pandemia ha fiaccato ma non distrutto.
LUCIANO COSTA