Incomincia il Campionato europeo di calcio. Durerà un mese. E saranno trenta giorni di delirio mediatico in cui tutti diranno tutto e il contrario di tutto. Alla fine dei trenta giorni e della serie di disfide ogni volta ospitate in arene diverse, uno solo vincerà. Gli altri, medicate le ferite, prometteranno vendetta, tremendissima vendetta, ma solo alla successiva occasione. Il torneo europeo è dell’anno 2020 benché sia chiaro a tutti che siamo nel 2021. Tutta colpa dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di Covid-19 che ha fatto rinviare tutto di un anno. In ogni caso, questa è la 16ma edizione della competizione europea che da sempre è croce e vanto di nazioni e tifosi, la prima ad essere itinerante, cioè vagabonda, più o meno con un piede sul campo e l’altro sull’aeroplano destinato a condurre al successivo appuntamento.
Per la goduria della globalizzazione, infatti, il campionato si giocherà in undici città del Continente. La gara inaugurale, con Italia e Turchia pronte a onorare la sfida, va in onda stasera allo Stadio Olimpico di Roma; la partita finale, tra le due squadre che avranno costretto tutte le altre alla resa, è prevista allo stadio Wembley di Londra esattamente tra un mese, domenica 11 luglio. A giudicare dagli apparati televisivi e radiofonici e giornalistici messi in circolo, salvo sorprese, questo appuntamento col calcio europeo dovrebbe essere megagalattico, stratosferico, di altissimo lignaggio, capace di tenere i tifosi incollati al televisore e i non tifosi, o anche soltanto i tiepidi, costretti ad accontentarsi delle briciole. Sarà quel che sarà…
Personalmente non capisco l’attaccamento morboso a una squadra, però qualche calcio tirato al pallone mi ha sempre regalato belle emozioni; non capisco la scienza calcistica, eppure quando ai miei tempi si trattava di vincere un torneo notturno la scienza del tornaconto, utile per consentire ai giocatori di intravedere la possibilità di assicurarsi una briciola di vacanza, imponeva pochi fronzoli e tanta sostanza (massimo due passaggi e il successivo doveva arrivare sul piede mancino del Sandro che di botto avrebbe calciato azzeccando di sicuro – capitava una volta su tre – il gol necessario per fare la differenza); non capisco neppure i pomposi commentatori che stravedono per moduli e tattiche (meglio se contorte e impastate da tic.e.te.toc fatti apposta per far salire il latte alle ginocchia) ma che regolarmente perdono la trebisonda se in maniera estemporanea i giocatori decidono di sostituire moduli e tattiche con la fantasia, l’unica in grado di addomesticare la palla e di portarla elegantemente alle spalle del malcapitato portiere di turno.
Capisco invece che, anche adesso, il calcio (chiamatelo europeo se volete), è una necessità: per le nazioni ospitanti che fanno vetrina di quel che possiedono di bello e di buono; per i calciatori che se ci mettono estro, segnano gol, parano il possibile e l’impossibile, rilanciano e difendono con grinta diventeranno più ricchi e famosi di quanto già non lo siano; per gli organizzatori che di sicuro avranno a disposizione palcoscenici giganteschi su cui cantare le lodi della loro professionalità; per i tifosi che avranno a disposizione trenta giorni per misurare la forza delle loro corde vocali e la loro capacità di trasformare il gioco in competizione…
Alla fine, basterà invertire l’ordine dei fattori per rendersi conto che tutto è rimasto come era: un gol segnato con classe sopraffina al posto di un villano e contestato rigore, ed ecco che la storia assumerà i contorni di sempre. Gli stessi andati in scena in una città sperduta di Valle del Rio Negro, nella Pampas argentina, dove il gol raccontato da Osvaldo Soriano era l’epilogo di un campionato (locale non europeo) incredibile e impossibile, almeno per l’Estrella Polar, scalcinata squadra (paesana non nazionale) che quell’anno aveva imbroccato punti su punti arrivando all’ultima partita sapendo che bastava un pareggio per spodestare gli odiati campioni in carica.
Qui e adesso, per molti (forse troppi o forse troppo pochi) una partita, un gol, un rigore diranno quel che siamo: innamorati del bel calcio e delle passioni che esso sa ancora suscitare. Quel gol del “divin codino”, ricamato di punta e con due finte di corpo da far impazzire anche la più astuta delle verginelle in libera uscita, ma anche quel rigore destinato a concludere la partita più importante dell’anno nello spazio di venti secondi, quelli che mancavano sette giorni prima alla fine della singolar tenzone, che Gato Diaz, portiere dell’Estrella Polar para una volta e anche la seconda, perché la prima l’arbitro, svenuto e quindi impossibilitato a vedere dopo aver fischiato, non la ritenne valida imponendo la ripetizione, sono per il tifosi il massimo della goduria calcistica e per gli scrittori la più aspra e difficile metamorfosi letteraria, quella che impone di dare al racconto futilmente e utilitaristicamente cronachistico il valore della testimonianza.
Un gol, quale che sia, è più di un’emozione e un rigore, soprattutto se masticato per lunghissimi sette giorni, è un tormentone che solo un pallone dentro la rete potrà sciogliere. Però, gol e rigori, se raccontati spogliandoli dall’enfasi e rivestendoli semplicemente di emozioni, saranno goduria per tifosi non ancora incancreniti e serviranno, soprattutto, per comprendere fatiche, gioie, delusioni, speranze, attese, metamorfosi, sogni e tintinnii di monete che da sempre accompagnano il calcio giocato e, ahimè, soprattutto, parlato. Per godere la festa calcistica basterà allora non affannarsi nella ricerca di ragioni e torti, ma avere solo tanta voglia di uscire dal tifo per entrare nel mito rappresentato dal gesto atletico, dalla rovesciata, dalla finta, dal sorriso beffardo, dalla lacrima furtiva, dall’esultanza, dalla corsa fino agli spalti gremiti per gridare semplicemente “gooool”.
A cominciare dal primo, che appunto perché inaugurale sarà cantato, pubblicizzato e tramandato ai posteri.
Poi, dentro la storia e nel susseguirsi dei giorni targati Europei di calco 2020 benché giocati nel 2021, esaltanti e spesso unici, segni di vittoria o pezze ai disastri di sviste arbitrali o di giocate malnate, confluiranno tutti i gol, tutti belli, alcuni fatali e mitici. Come quelli prodotti dall’incornata di De Paoli (o forse di Riva, di Anastasi o di Altobelli), dal ricamo arabesco ed elegante di Baggio, dalla mitica rovesciata di Del Piero (o di Mazzola, di Rivera, di Beccalossi, di Cassano o di altri), dalla carezza di Pirlo, dalla pennellata di Conti, dal guizzo di Rossi, dalla zampata di Furino, dalla magia di Totti… Tutti gol e gesti che escono dallo scrigno dei ricordi e rivivono nella memoria. Gol per tutti gusti. E di tutti i tempi”. Per assaporarli basterà ricordarli, immaginando il “gol” non come epilogo del giorno ma come inizio di un’avventura. Da raccontare, magari anche da vincere. Con la maglia dell’Italia, ovviamente.
LUCIANO COSTA