Romano Prodi, un non politico però sempre politicamente corretto, un cristiano che volentieri è andato a coniugare il Vangelo nelle aule della politica, anche un professore benigno con gli allievi e severissimo con i cercatori di consensi, se ne sta nella sua Bologna e non disturba i naviganti. Però, non sta certo fuori dalle cose che contano, che riguardano noi italiani, ma anche l’Europa e il mondo afflitto da guerre e impegnato a definire egemonie economiche piuttosto che programmi adatti a cancellare piaghe ataviche quali fame, sete, malattie, lavoro, giustizia, libertà dei popoli. Prodi non ama apparire, ma in giusta misura non rifiuta mai un’intervista, purché non banale e non banalizzante il panorama che la circonda. Quindi, non è mai banale chiacchierare con lui sui grandi temi, magari provocarlo sugli abissi in cui precipita la politica, intervistarlo sul come ragionare di pace in un mondo che certo parla di pace ma accompagnando ogni parola con la produzione massiccia di armi adatte a fare la guerra, chiedergli se e come si esce dallo stallo in cui ci siamo ficcati… Di pace, soprattutto, si occupa Romano Prodi nell’intervista concessa all’inviato di “Avvenire”, il quotidiano dei cattolici. Però, ecco il mite Romano che emerge e propone una diversa lettura della sua disponibilità usando una battuta amara, che dice “vorrei tanto che questa intervista non uscisse mai; vorrebbe dire che tutto si è magicamente risolto”. Invece, si sa, la pace in Europa e nel mondo, adesso e non chissà quando, resta un “pensiero importante ma non applicato”, cioè un auspicio e non l’espressione di una volontà assoluta, perentoria, definitiva.
Infatti, scrive “Avvenire” a premessa dell’intervista “la guerra che si protrae stancamente (ma sempre tragicamente, fra vittime innocenti e massacri) da un anno e mezzo esatto, è sempre meno presente nei discorsi degli italiani e negli spazi sui mass-media. La novità, semmai, è nelle sfumature, oggi più attenuate, di chi dalla prima ora ha usato toni solo ed esclusivamente bellicisti. La realtà dice invece che il gran dispiego di armi e munizioni a sostegno di Kiev sta portando mutamenti minori di quelli attesi e sperati”. Poi le domande, rigorosamente ancorate al tema della pace e della guerra, senza fine, sferrata dalla Russia all’Ucraina. La preoccupazione maggiore, dice Romano Prodi, è che vengano escluse le possibilità, che sussistono, di ragionare piuttosto che di bombardare… Da qui l’intervista, che volentieri propongo come lettura intelligente, adatta a spiegare il vissuto in cui si collocano pace e guerra, utile per capire come uscire dal pantano. (Luciano Costa)
LONTANI O VICINI ALLA PACE?
Professore, oggi siamo più vicini o più lontani a una prospettiva di pace?
Forse più lontani. Anche perché le vantate controffensive hanno dato luogo soltanto a una guerra di trincea che comporta una moltiplicazione delle sofferenze, senza né vincitori né vinti. Come ha detto domenica scorsa il cardinal Matteo Zuppi al Meeting, avremmo tanto bisogno di un grande intervento di pace della Ue. Ma le divisioni interne lo impediscono. E allora ci ritroviamo in guerra e senza un’evidente mediazione.
Quella della Santa Sede, con il prossimo viaggio del cardinal Zuppi a Pechino, cosa è?
Su input di papa Francesco, il cardinale si appresta giustamente a visitare, dopo Ucraina, Russia e Usa, il quarto Paese protagonista di questo frangente della storia: la Cina, appunto. Non la si può definire una vera mediazione di pace. Ma il grande contenuto di umanità apportato dal cardinale è certamente l’unica premessa possibile per allargare la speranza di pace, finora troppo flebile.
Come si può uscire da questo conflitto nel cuore dell’Europa?
Dispiace essere monotono, ma non ho da cambiare una sillaba rispetto a quel che dissi il primo giorno: cioè che non vi sarebbe stata nessuna possibilità senza un’intesa fra Stati Uniti e Cina, e così è ancora oggi. Bisogna riconoscere che il re è nudo e prendere atto della superiorità americana e cinese nel mondo: la pace la fa chi comanda.
Non sarebbe interesse di tutti la pace?
Sì, dal punto di vista politico e anche economico. Guardi cosa succede: questa situazione ha diminuito le prospettive di crescita per tutti i Paesi e ha reso molto più difficile l’elaborazione di una politica per l’Africa e le aree più povere del pianeta. Ogni guerra produce tragedie infinite e ogni giorno rischiamo la possibilità di un’escalation. Anche se molti analisti i rischi di vera tensione li vedono più ancora a Taiwan, dove appunto è in gioco la Cina.
In questi 18 mesi, quando si è evocata la pace si è sempre stati tacciati di «posizioni filo-russe» o «filo-putiniane». E’ sbagliato parlare di pace?
La pace ha sempre la sua validità nella storia. Uno degli errori commessi finora è stato proprio quello di assimilare questa parola a una sorta di patto col diavolo. E si è persino cercato di definire ingenui coloro che parlano di pace. Il nostro obiettivo deve essere quello di riflettere su quali sono le condizioni per una possibile pace giusta e duratura.
Ecco, le condizioni, nodo difficilissimo da affrontare per ogni mediatore.
Ci sono infinite ipotesi che si possono prendere in considerazione e che comprendono tutti gli interventi possibili che in ogni caso debbono essere condotti sotto una forte supervisione internazionale. Il problema è di metodo: non occorre partire da un’idea e cercare di imporre quella, ma bisogna sedersi a un tavolo e valutare la compatibilità fra di loro dei vari interventi, pur distinguendo sempre fra aggressore e aggredito. Anni fa, l’esempio virtuoso che citavo sempre, era l’Alto Adige con l’accordo De Gasperi-Gruber. Ma oggi, coi territori ancora invasi, ha una validità minore. Nella storia ci sono punti di partenza che sembrano invalicabili, ma nulla lo è. Si deve tener sempre presente che la situazione in cui stiamo, intanto, è la peggiore possibile.
Perché l’Europa non riesce a favorire un processo di pace?
Sull’Europa io ho sempre avuto idee molto semplici e per questo, forse, difficili da realizzare. Ha bisogno di dare un assetto definitivo ai propri confini. E i Paesi balcanici appartengono all’Europa. E’ chiaro che questo comporta il dover fare una riforma istituzionale dell’Unione, perché già oggi i Paesi membri sono troppi e vanno promosse perciò le cooperazioni rafforzate e le maggioranze qualificate.
E come regolarsi con gli Stati “limitrofi”, quelli che possono creare problematiche maggiori?
Sin dal 2002 insisto sulla via che definii di un “anello dei Paesi amici” da stringere con tutti gli Stati limitrofi, che potrebbero trattare accordi bilaterali con l’Unione, differenti l’uno dall’altro, per valorizzare il proprio singolo ruolo in modo da creare una politica di vicinato che garantisca stabilità. L’Europa ha bisogno di essere diversa dalle altre potenze mondiali proprio per la diversità della storia attraverso cui ci siamo formati, passando già per due guerre tragicissime. Per questo non capisco perché la Francia abbia, nel recente passato, bloccato i negoziati per l’adesione all’Unione Europea dell’Albania e della Macedonia del Nord. Noi abbiamo la necessità, non più rinviabile, di dotarci di una vera politica estera e di una difesa comuni. Eppure è possibile fare come con l’euro, quando si partì solo in 12 Stati, e successivamente è stato allargato.
Vuole dire che esiste in qualche modo un “nodo Francia” nell’evoluzione del processo europeo?
Sì. Tutto questo lo si potrebbe fare in un giorno se solo la Francia mettesse a disposizione dell’Europa l’arma nucleare e il suo diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Invece non lo fa, rimanendo sola davanti ai suoi guai crescenti con i Paesi africani dell’ex impero.
E questo porta allo scarso peso dell’Europa?
L’Europa deve attrezzarsi invece per un ruolo futuro. Lo storico, importante riarmo della Germania cambierà per sempre la natura del nostro continente, che finora è stato guidato dal motore franco-tedesco con un ruolo non così marginale – in fondo – dell’Italia. “Bon gré” o “mal gré”, di questo passo l’Europa in futuro avrà invece un unico leader: la Germania. Non lo può essere il Regno Unito, uscito e oggi pentito dall’Ue. E non lo può più essere la Francia. Mi viene in mente quella definizione sugli ex imperi, che sono come un autista che guida guardando solo lo specchietto retrovisore…
Le prossime elezioni americane, con una probabile nuova sfida fra Joe Biden e Donald Trump, possono influire e condizionare discorsi di pace?
Influiranno certamente, ma non so dirle come. Certo quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale Usa, grosso modo dal prossimo autunno, parlare di pace diventerà ancora più difficile. Il tempo è poco. Una finestra è adesso, bisognerebbe sbrigarsi. Altrimenti ci attende un altro anno almeno di guerra, lutti e devastazioni.