Il discorso sullo stato dell’Unione Europea, pronunciato ieri a Strasburgo davanti al Parlamento dalla presidente della Commissione Ursula Von del Leyen, ha stupito non tanto per aver ribadito impegni già presi, quanto per la forza data alle parole: pace, concordia, collaborazione, rispetto, diritti, servizio, unità accompagnate da riflessioni e da annotazioni sul cosa fare per tradurle in gesti e comportamenti virtuosi, degni di quella buona politica che deve rappresentare l’Europa di fronte al mondo, che sta dalla parte dell’Ucraina invasa, che alla strategia delle sanzioni imposte alla Russia che arbitrariamente ha invaso un Paese libero assegna il compito di obbligare la fine delle ostilità e l’inizio della pace, che per superare la crisi energetica scatenata dal conflitto chiede unità di intenti e capacità di esercitare con creta solidarietà… Che il tema Ucraina fosse dominante lo dimostrava anche la presenza al Parlamento Europeo di Olena Zelenska, moglie del presidente ucraino, Volodomyr Zelenski. A lei è ai deputati presenti la Presidente della Commissione riuniti, con forza e senza giri di parole ha detto: “Questa non è solo una guerra della Russia contro l’Ucraina, è una guerra contro la nostra energia, le nostre economie, i nostri valori e la democrazia. Con il coraggio e la solidarietà – ha detto ancora – Putin verrà sconfitto, l’Europa e l’Ucraina prevarranno”. L’obiettivo finale, ha aggiunto, non è solo quello di aiutare in tutti i modi Kiev a vincere la guerra cui è stata obbligata, ma anche di far entrare l’Ucraina nell’Europa. Poi, la crisi e le crisi che la guerra sta imponendo a milioni di famiglie proprio a causa dell’aumento dei prezzi di carburanti, gas ed elettricità usati come ver e propria arma di ricatto dalla Russia di Putin. “Milioni di europei hanno bisogno di sostegno – ha sottolineato Ursula Von del Leyen – e gli Stati membri hanno già investito miliardi di euro per assistere le famiglie più vulnerabili. Ma sappiamo che non sarà sufficiente. Per questo motivo proponiamo un tetto ai ricavi delle aziende che producono elettricità a basso costo”. Questa proposta, nelle intenzioni della Commissaria, consentirà di raccogliere più di 140 miliardi di euro che serviranno ad attutire il colpo del caro energia.
Ma niente si concretizzerà senza un cambiamento di stile a tutti i livelli. Questo significa che “occorre un piano di risparmio energetico da realizzare famiglia per famiglia, città per città, Stato per Stato. È necessario poi uno spostamento sulle energie rinnovabili e soprattutto perseguire l’autonomia energetica, che significa sganciarsi dalla dipendenza dal gas russo…”. Per farlo, ed è la condizione senza la quale ogni sforzo di riequilibrare il sistema e mettere pace al posto della guerra, serve maggiore responsabilità degli Stati membri “sul rispetto di ciò che è stato concordato”.
LONTANO DA STRASBURGO, in un contesto religioso che però non lesinava approcci e inviti all’uso della buona politica, il tema della pace in Europa e nel mondo diventava un “accorato appello” a fermarsi per far posto alla pace e alla concordia. A lanciare l’appello è stato il settimo Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali riuniti a Nur-Sultan, capitale del Kazakhstan. Nella sala delle conferenze del Palazzo dell’Indipendenza, insieme al presidente della Repubblica kazaka, c’erano i rappresentanti di 110 delegazioni, giunte da oltre 50 Paesi, anche dall’Italia, uniti dalla preghiera silenziosa oltre che dal desiderio di vedere finalmente sorgere e concretizzarsi la pace nel mondo. Ai rappresentanti delle diverse religioni, papa Francesco, primo invitato al Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, ha con forza ricordato che nessuna violenza può essere giustificata, che non è permesso “strumentalizzare il sacro con ciò che è profano. Il sacro – ha ribadito Francesco – non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità! Perché Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra”. Da qui l’invito a impegnarsi per “promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, bensì con l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni…”.
Potrebbe essere l’approccio più normale quello messo in luce da papa Francesco. In realtà si colloca dentro un Paese, il Kazakistan, che incarna due anime, una asiatica e l’altra europea, che di fatto lo rendono “un ponte fra l’Europa e l’Asia, un ‘anello di congiunzione tra Oriente e Occidente”, un luogo che “i circa centocinquanta gruppi etnici e le più di ottanta lingue, con storie, tradizioni culturali e religiose variegate”, rendono “un laboratorio multi-etnico, multi-culturale e multi-religioso unico, con una vocazione speciale a essere Paese di incontro di culture e religioni diverse”.
Per capire la realtà e il vissuto del Paese in cui il Congresso dei leader mondiali delle religioni si colloca, serve forse dare uno sguardo alla geografia del Kazakistan. Incastonato tra la Russia, con cui confina per l’intera parte settentrionale, la Cina a est, le ex-Repubbliche sovietiche nella parte meridionale (Kyrgyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan) e l’enorme lago del Mar Caspio a ovest, il Kazakhstan è vasto quanto tutta l’Europa occidentale. Il suo nome vuol dire “Terra dei Cosacchi” e indica i nomadi, che abitavano le steppe dell’Asia centrale. Il Kazakhstan fece parte dell’Impero Russo e poi dell’Urss fino al 1991. Gli anni ’90 hanno visto la progressiva concentrazione del potere nelle mani del presidente Nursultan Nazarbayev, un funzionario del precedente regime sovietico, rimasto alla guida del Paese fino al 2019 quando cedette il potere al delfino Kassym-Jomart K. Tokayev. Se, sul piano interno, Nazarbayev aveva condotto una politica autoritaria, sul piano internazionale aveva portato avanti una politica multidirezionale tesa a creare e mantenere buoni rapporti sia con i Paesi confinanti, in particolare le potenze russa e cinese, sia con Iran, Turchia, ma anche l’Unione Europea e gli Stati Uniti. È con il vicino colosso cinese che la cooperazione si è andata consolidando. Gli scenari che si profilano, alla luce della guerra in Ucraina, incidono però sugli assetti interni imponendo nuove e importanti decisioni, tra le quali anche il riconoscimento o meno delle regioni separatiste filorusse occupate dalle truppe di Mosca. La grande questione irrisolta resta comunque quella che riguarda la minoranza russa. In Kazakistan, Paese storicamente misto, convivono infatti ben 150 gruppi etnici… Il gruppo più numeroso è quello kazako, ma senza una maggioranza assoluta visto – il 42% della popolazione, con i russi al 37% circa. Con questi numeri l’etnia kazaka si è sempre considerata “una sorta di minoranza in casa propria per lo spazio preponderante che avevano i russi nella società e nell’amministrazione”. Per cambiare questi equilibri ci sono voluti anni contrassegnati dal richiamo in patria dei kazaki che vivevano al di fuori del nuovo Stato, ma anche dalla contemporanea emigrazione di una grossa fetta della popolazione russa proprio verso la nazione kazaka. Oggi i due terzi dei 19 milioni di abitanti sono di etnia kazaka. Guardando invece al fronte religioso, in Kazakhstan, secondo gli esperti “è stata sempre enfatizzata la convivenza tra popoli e religioni tanto che la libertà di culto è uno dei fiori all’occhiello della politica kazaka”.
OLTRE I CONFINI DEL KAZAKISTAN si contano intanto già cento morti, metà per parte, nei peggiori scontri degli ultimi due anni tra Armenia e Azerbaigian per la regione contesa del Nagorno-Karabakh. Così il Caucaso torna a infiammarsi proprio quando il presidente Putin, e la comunità internazionale, avrebbero preferito che la situazione rimanesse sotto controllo. Tutto è cominciato quando nei giorni scorsi sono riesplose le tensioni sempre concentrate sul territorio conteso del Nagorno Karabakh, a maggioranza armena ma in territorio azero. Difficile, anche qui, è parlare di pace e di concordia. Un po’ per i legami religiosi, culturali e di affari, un po’ perché l’Armenia ha chiesto aiuto a Mosca in virtù del Trattato di amicizia, in un momento in cui il Cremlino è impegnato a tempo pieno sul fronte ucraino, i due alleati per convenienza, Russia e Turchia, rischiano di trovarsi anche questa volta da due parti diverse della barricata. Ma quella che sembra una partita a quattro, vede in realtà l’allerta anche di Europa e Stati Uniti. Il Caucaso è uno snodo importante per le vie dell’energia. Soprattutto per l’Italia, che riceve dall’Azerbaigian gas e che di recente ha firmato accordi per aumentare la fornitura e liberarsi dalla dipendenza da quello russo. Anche qui gli appelli alla cessazione immediata delle ostilità e al ricorso alla diplomazia sono primari. Difficile semmai è dire che siano anche realizzabili.
NEL CORNO D’AFRICA, nell’indifferenza globale, si sta intanto consumando la tragedia più grande di questa “terza guerra mondiale a pezzi”. Colpa di tre flagelli biblici qui concentrati come in nessun altro luogo del pianeta. Si chiamano peste, fame e guerra i nuovi flagelli, perché qui il Covid non si rileva ed è considerato male minore rispetto a malattie rese letali dalla povertà e dalla mancanza di accesso a farmaci e cure, perché la fame, ben nota alle popolazioni di questa porta dell’Africa, è diventata ormai carestia per quattro anni di raccolti persi a causa della siccità da mutamenti climatici e dei conflitti, perché la guerra, sia quella civile in Somalia tra i terroristi jihadisti di al-Shabab e le autorità nazionali, sia quella in Tigrai hanno arretrato di mezzo secolo le condizioni di vita… “Le popolazioni etiopi settentrionali, ad esempio, stanno patendo un’ondata di violenza mai vista con stupri di massa, massacri di civili inermi distruzione di ospedali e scuole, bombardamenti indiscriminati da parte di droni.
Non c’è il rischio che da qui prenda il via un conflitto nucleare che metta in pericolo l’umanità, ma è insopportabile – o dovrebbe esserlo – pensare che vi siano qui quasi venti milioni di persone a rischio, tra Etiopia, Eritrea e Somalia. E molti anziani donne e soprattutto bambini sotto i cinque anni stanno già morendo di stenti in casa e per strada, stando a quanto dichiarano gli organismi umanitari internazionali legati all’Onu come Fao, Oms e Ocha. E nessuno, Unione Africana in primis, riesca a fermare il disastro. I flussi migratori fuori controllo che ingrassano i trafficanti e ci spaventano nascono così in questo lembo orientale del grande continente dove si convive da decenni con instabilità e conflitti che soffocano le enormi potenzialità di sviluppo. In quest’area le conseguenze della guerra in Ucraina sono state particolarmente pesanti perché la dipendenza dal grano e dai fertilizzanti russi e ucraini era alta e la comunità internazionale si è distratta.
Le responsabilità della catastrofe del Corno d’Africa gravano su molti. Anzitutto le potenze del Golfo, la Turchia neo-ottomana, la Cina, la Russia e gli Usa che si contendono il controllo delle floride rotte commerciali del Mar Rosso e delle risorse naturali con bracci di ferro e veti incrociati ai tavoli di trattativa e all’Onu. La guerra è comunque un affare per questi Paesi, produttori e venditori di armi. Sono poi notevoli la corruzione e l’incapacità della classe dirigente locale di superare divisioni etniche ataviche…
C’è poco da stare allegri. Il mondo vive a contatto di guerre e di ingiustizie palesi. Rimuoverle è obbligatorio. Ma come fare nessuno ancora lo sa, o non lo vuole sapere. Però basterebbe mettere in comune ciò che si ha per dare respiro e pane a chi ne ha bisogno. Utopia? Forse sì, forse no. Preferisco la seconda.
LUCIANO COSTA