Prima le guerre e il terremoto (Ucraina, terra di guerra a due pass da noi, sotto assedio mentre il suo Presidente chiede all’Europa appoggi e aiuti che consentano al suo popolo di continuare a difendersi e ad affermare il valore assoluto e inalienabile della libertà; terremoto in Turchia e Siria, terre lontane il cui grido di dolore supera ogni distanza, dove i morti accertati sono già ventimila e più, dove le macerie grondano disperazione, dove quel che resta della vita s‘aggrappa agli aiuti che il resto del mondo sta garantendo e continuerà a garantire…), che non concedono tregua, che invocano ascolto, che implorano misericordia. Poi tutto il resto, che qui ma anche là e chissà dove, è fatto di distinguo, polemiche, accuse, assoluzioni, verità, mezze-verità, menzogne, accuse, potere…, un insieme che nonostante generosità e aiuti concessi riesce ancora a inquietare, e non poco.
Poi, per fortuna o purtroppo, di nuovo Sanremo, paese delizioso e ameno, deliziosamente e amenamente immerso in un ricco e festaiolo festival della canzone, di nuovo capace di far posto al “gran teatro del mondo”, simile se non uguale a quello immaginato nel 1635 (appena 388 anni fa) da Calderon de la Barca per mettere in scena “l’eterna commedia della vita, nella quale i diversi tipi di umani – il Re e il Contadino, il Ricco e il Povero, la Bellezza e la Prudenza – interpretano il ruolo che è stato loro assegnato da Dio…”, per rinnovare l’ammonimento “sulla condizione umana, sulla brevità e precarietà della vita”, per regalare “accenti commossi alle figure del dramma che da semplici simboli si tramutano in esseri reali”.
Poi, magari senza volerlo, Sanremo e il suo festival hanno ieri fatto posto alla domanda più inquietante, subdola, scivolosa, odiosa, indisponente, ovvia e banale – gli italiani sono razzisti? – e alla risposta più equidistante, assolutrice, accomodante, doppiogiochista e subdola – sì, ma non tutti – che mente umana potessero escogitare. Paola Ogechi Egonu, la pallavolista diventata italiana, con la pelle nera, tanto forte da schiacciare palle che nessuna avversaria può parare e respingere e quindi assicurare all’Italia sportiva gioie, orgoglio, vittorie e medaglie, alla domanda ha risposto senza esitazione, senza calcolo, senza reticenze, schiacciandola verso la terra abitata da troppi che di fronte alla pelle che non assomiglia alla loro immaginano mondi diversi, non all’altezza dei propri e, soprattutto, nel posto sbagliato, che quello in loro uso è e deve rimanere semplicemente bianco o, tutt’al più, abbronzato. Però, chi di fronte alla domanda “sei razzista?” avrebbe il coraggio di rispondere secco e gnecco “sì, sono razzista” senza invocare scorciatoie e addurre giustificazioni?
Così, ieri sera la lezione (lezioncina leziosa e priva di quel contradditorio che avrebbe consentito di ribadire i sottili distinguo, di invocare scorciatoie e di addurre giustificazioni) di Paola Ogechi Egonu, niuente altrio che una pallavolista talentuosa e bella la sua parte, è venuta a ricordarci che anche lei è italiana e che noi italiani siamo suoi fratelli, con pelle chiara ma comunque fatti come lei.
“Questa sera – ha detto – non sono qui a dare lezioni di vita, perché alla mia età sono più le cose che posso imparare di quelle che posso insegnare… Sono stata definita ermetica, così nel tempo mi sono impegnata a raccontarmi di più, provando a ridurre al minimo lo spazio di interpretazione. Questo non ha evitato comunque che alcune frasi venissero strappate dal contesto, tagliate, incollate in senso casuale e fiondate sui giornali come titoli usati per far rumore…”. Invece, “sono la prima di tre fratelli, figlia di Eunice e di Ambrose, che mi hanno permesso di vivere un’infanzia felice, che mi hanno sostenuta e che mi hanno insegnato che se vuoi qualcosa devi guadagnartela, magari lasciando la casa natale e andando lontano… Non sono madre, sogno di poterlo diventare, ma sono certa che nessun genitore sia felice che la propria figlia cresca lontana dal suo amore e dal suo sguardo… Da bambina chiedevo: perché sono alta? perché mio nonno vive in Nigeria? perché mi chiedono se sono italiana? Poi, diventando più grande, mi sono chiesta: perché mi sento diversa? perché vivo questa cosa come una colpa? perché ogni volta mi sono punita dando una versione sbagliata di me stessa? Con il tempo ho capito che questa mia diversità è la mia unicità… perché io sono io”. Io sono quella che quando oggi ancora mi fanno una domanda sul razzismo, rispondo così: prendete dei bicchieri di vari colori e metteteci dentro l’acqua; vedrete che la maggior parte delle persone sceglierà il bicchiere trasparente, solo perché il suo contenuto è più limpido; eppure se proverete a bere da uno dei bicchieri colorati, scoprirete che l’acqua ha sempre lo stesso gusto, fresco e vita, perché siamo tutti uguali oltre le apparenze…”. Paola aggiunge che giocando in attacco il suo obbiettivo “è quello di riuscire ad avere tra le mani la palla decisiva da schiacciare, quella che farà punto… A volte ci riesco, altre volte sbaglio e sto imparando ad accettare l’errore… Crescere vuol dire imparare a dare il giusto peso alle critiche, affrontare i momenti brutti ma anche godersi quelli belli… Amo l’Italia, vesto con orgoglio quella maglia azzurra che per me è la più bella del mondo e ho un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo Paese in cui ripongo tutte le mie speranze di domani… Aver sbagliato in tante finali non fa di me una perdente. Cosi come non è perdente chi a scuola prende il voto più basso e non è perdente chi non riesce a realizzare il proprio sogno al primo colpo. E poi, visto che siamo a Sanremo, non è perdente nemmeno chi arriva nelle ultime posizioni in classifica…”. Come Vasco Rossi, che nel 1983 arrivò penultimo, ma che resta “un altro non perdente, che ci ha insegnato che dalle sconfitte più dure possono nascere i successi più grandi. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso…”, ognuno col colore della sua pelle.
Ieri Paola Ogechi Egonu, pallavolista di successo, capace di spiegare al mondo la bellezza di essere quella che natura ha voluto che fosse; parecchi anni fa Tahar Ben Jelloun, uno scrittore marocchino d’origine e francese d’adozione, che di fronte al disagio di sentirsi chiamato “negro” o anche “sporco negro” scrisse parole per spiegare il razzismo, quel razzismo che concedeva a qualcuno di chiamare un altro “negro” o addirittura “sporco negro”, a sua figlia e così guidarla al di là di ogni steccato innalzato per dividere e distinguere gli uni dagli altri… Di Paola non so altro se non quel che di lei è stato scritto; di Tahar, invece, conservo un ricordo straordinario e bellissimo…
Allora, il suo libro, intitolato “Il razzismo spiegato a mia figlia”, era fresco di stampa. Se ne parlava tra chi aveva a cuore quel tema spinoso e sottovalutato, ma niente lasciava prevedere fosse l’inizio di un cammino che avrebbe portato a prendere coscienza di un problema tanto importante. Sempre e solo allora, per Scaip (benemerita associazione di volontariato votata all’aiuto di missionari disperati ma coraggiosamente impegnati in terre affamate) invitai a Brescia Tahar Ben Jelloun (marocchino emigrato in Francia in cerca di fortuna e riscatto), autore del volume, per una conferenza che svegliò i bresciani e riempì il salone vanvitelliano della Loggia. Tahar raccontò la sua odissea e sottolineò la sorpresa di vedersi, lui e il libro, al centro di tante attenzioni. Mi disse che la spinta a scrivere quel testo gli era venuta dalla figlia quando, di ritorno da scuola e probabilmente già ella stessa oggetto di qualche distinguo a sfondo razziale, gli chiese: “Ma che cosa è il razzismo?”. Allora, quel volumetto divenne un testo fondamentale, adottato nelle scuole, cercato da genitori preoccupati, distribuito ogniqualvolta si ponevamo al centro del discorso i diritti negati a chi, portatore di un coloro della pelle diverso dal solito, era ritenuto diverso. Con Tahar, grazie a Rosanna, al tempo sensibile addetta stampa dell’Editrice Bompiani, ci furono altre occasioni di incontro e di confronto, compresa un’intervista telefonica in cui egli mi annunciava la volontà di ampliare il discorso sul razzismo fino a farlo diventare “pane quotidiano per chiunque volesse cimentarsi nella difesa del diritto di qualsiasi diversamente diverso ad essere considerato in diritto di essere diverso ma rispettato”.
Poi, lui a Parigi o dove lo chiamavano, e io a Brescia, inevitabilmente, ci perdemmo di vista. Però, continuò l’interesse per ciò che scriveva, insegnava, testimoniava…. Così, nel bel mezzo delle serate del Festival di Sanremo 2022 (appena di un anno fa) non mi stupì un suo articolo (pubblicato su “Repubblica”) dedicato a Lorena Cesarini e al suo monologo sul razzismo in generale e su quello che lei stessa aveva subito in quanto ragazza di pelle diversa e di origine diversa, dettato sul palcoscenico, anche allora il medesimo “gran teatro del mondo” allestito dal solito Calderon de la Barca. “Quelle parole – sottolineò Tahar in quell’articolo – sono quelle che dicendo io resto nera segnano l’orgoglio di essere quel che si è senza dover cedere al nefasto concetto di diversità stabilito dal colore della pelle. Dopo la serata di Sanremo – aggiungeva – so che un libro capace di occuparsi di razzismo col solo scopo di metterne in evidenza l’assurdità dell’uso e del ricorso a qualsiasi forma di discriminazione, soprattutto se letto da una artista di fronte a milioni di telespettatori, assume improvvisamente un’importanza inimmaginabile, tale da sconvolgere in benpensanti e più inclini al all’odio che all’amore…”.
Leggendo all’alba i commenti dedicati alla terza notte festivaliera e alla presenza di Paola Ogechi Egonu, pallavolista diventata italiana ma ancora in possesso della sua originale e bella pelle scura, ho ripensato a Tahar Ben Jelloun, al suo libro e all’intuizione (“magnifica” secondo alcuni, “frutto di una mente buonista e bacata” secondo altri) che mi portò, allora e solo allora, a invitarlo nella mia città per spiegare il razzismo a me e ai suoi figli. E di nuovo mi sono sentito orgoglioso di averlo fatto…
LUCIANO COSTA