Un anno fa, il 10 aprile 2020, moriva Cesare Trebeschi, avvocato, politico, cittadino esemplare, cristiano a cui il Vangelo piaceva concretamente viverlo piuttosto che pomposamente discuterlo. Oggi i familiari e gli amici lo ricordano e don Armando, che gli fu amico, celebrerà una messa di suffragio. Probabilmente, qualche politico (per esempio chi abbia avuto ventura di bere acqua pura alla fonte di Cesare) o magari un cronista (uno di quelli a cui non difettano memoria e riconoscenza per chi tanto ha dato alla città dell’uomo), proporranno briciole di parole per confermare quel che già è stato scritto. E cioè che Cesare Trebeschi ha lasciato esempi che non guasterebbe seguire ancora adesso e tracce limpide di servizio donato agli altri, che senza di lui la città è più povera. “Ma se intendi ricordare con affetto e riconoscenza qualcuno che è andato avanti – mi spiegò un giorno Cesare -, allora prendi la lampada e trovato un angolo appartato dedicagli alcuni minuti di pensieri pensati, un requiem che diventi preghiera invocante pace. Poi, rinnovagli l’augurio di proseguire senza intoppi il viaggio intrapreso il cielo”.
Oggi, messe da parte le notizie del giorno (tutte importanti, ma anche risapute), nel giorno che ricorda il primo anniversario della sua morte, rimetto al centro dell’attenzione Cesare Trebeschi: portatore d’acqua pura; sognatore di cieli e terre nuovi; ideatore di quella città dell’uomo cercata ma ancora difficile da realizzare; messaggero di un bene che se fatto bene era destinato a moltiplicare i suoi effetti; cristiano convinto e convinto assertore della politica come forma di grande carità; sostenitore di una società in cui chiunque avesse diritto di rappresentanza; testimone del servizio come emblema e vanto della politica…
Forse maldestramente, di certo con indicibile affetto e riconoscenza, ancor prima che si celebrasse Natale ho dedicato a Cesare un piccolo libro (“Le buone lezioni di Cesare T.”) in cui ho racchiuso pensieri, ricordi e, soprattutto alcune delle sue “buone lezioni”. Quelle poche ma sincere pagine dicevano e ancora dicono che Cesare è qui e non smette di raccomandare di “prendere la zappa per andare a dissodare quel pezzo di terra in cui gettare e far crescere il seme della civiltà e della fratellanza”. Scrivevo allora ciò che adesso, in piccola parte, rimetto in pagina, invitandovi a leggere per ricordare…
10 aprile 2020, un giorno tristissimo
Non c’è stato il tempo per salutarlo e neppure di riunirsi per una preghiera di suffragio e per assegnargli l’onore che si meritava. Era il 10 aprile 2020, parte di un anno funesto e bisesto; era il Venerdì Santo, che diceva l’imminenza della Pasqua e Cesare Trebeschi, nell’esilio forzato di una cameretta d’ospedale, si consegnava a sorella morte, supremo e imparziale giudice del tempo. Era il tempo del coronavirus imperante e per tutti valeva la ferrea legge dell’isolamento. Così, solo una telefonata quando l’alba annunciava il suo corso, avvertì la moglie Sofia Rovetta, i figli Andrea, Vittoria, Antonio, Lodovica, Franco e Giovanni e i sedici nipoti che Cesare non ce l’aveva fatta. Raggomitolati sul letto d’ospedale stavano i suoi 94 anni, che avrebbero ricevuto degna cornice quando, allo scoccare del 21 agosto, sarebbero diventati novantacinque. Invece, mentre il Venerdì Santo stabiliva il trionfo della vita sulla morte annunciando la Pasqua di Risurrezione, tutto si compiva. “Quando toccherà a me rispondere presente all’ultima chiamata – mi aveva detto un giorno lontano – accendete un lume, perché rischiari la strada che dovrò percorrere, e poi fate festa, una bella festa, degna cornice alla certezza che la vita continua…”. Con lui se ne andavano anche le memorie di persone spesso sconosciute ai più, ma grandi nella fede, arditi nella generosità, puntuali nei pensieri e nelle azioni rivolti all’umanità dolente; se ne andavano irrimediabilmente anche i tantissimi giorni da lui vissuti e condivisi con l’accortezza di avvolgerli in un soffio d’anima capace di fare la differenza e di renderli degni d’essere vissuti. (…)
Cesare aveva avuto in papà Andrea il lume che rischiarava la mente e apriva la strada che portava alla consapevolezza di essere uomini e mai burattini nelle mani della dittatura. Cresciuto a pane, impegno, libertà, Vangelo e libri, Cesare vide le Fiamme Verdi – “ribelli per amore della libertà” – che arrivando nella casa paterna di Cellatica trovavano ristoro per l’anima e il corpo e le abbracciò così forte da diventare parte viva di loro e delle loro idee. “In realtà – mi spiegò un giorno – ero un garzone al quale mastro fornaio affidava due manciate di farina con cui impastare il pane da consegnare agli affamati di verità e giustizia. Così diventai messaggero, postino, scaricatore, custode, guardiano e, soprattutto, amico dei mille e mille partigiani che non conoscevo ma dei quali ammiravo il coraggio e la determinazione con cui cercavano il prevalere della verità sulla menzogna, della giustizia sulla sopraffazione, della libertà sulla dittatura”.
In quei tragici frangenti contrappuntati da lutti e separazioni improvvise Cesare salutò suo papà Andrea arrestato e maltrattato a causa delle sue idee libere e forti, lo vide attraversare il portone del carcere come se fosse un malfattore e non il benefattore che tutti conoscevano e apprezzavano, lo pensò mentre lo costringevano a salire sul treno diretto al campo di sterminio, raccolse il suo invito e promise di essere, nella tempesta che già s’annunciava, àncora di salvezza e segno di speranza. Non aveva ancora vent’anni quando dovette asciugare le lacrime che mamma Vittoria non riusciva a trattenere di fronte allo scempio di cui era vittima il suo Andrea. “Allora – raccontò – don Giacomo Vender, che ci aveva accompagnato al carcere di Verona, venne a rincuorarci, a dirci che il perdono e non la vendetta avrebbe rappresentato la più autentica, nobile e assoluta vittoria”.
Diventato sindaco di Brescia il 15 maggio 1975, nel 1977 fui testimone per conto di “Voce del Popolo” e di “RadioVoce” del primo e unico incontro di Paolo VI con il Consiglio comunale della sua città. Una giornata memorabile, in cui il Papa sembrava respirare, tramite gli ospiti, tutti i sapori e gli umori della sua città e noi, tramite lui, sentivamo per intero il valore e la forza della civiltà dell’amore che annunciava e portava in giro per il mondo.
Qualche tempo dopo, accogliendo in Loggia i bambini delle amiche scuole materne di Verolanuova, di Cadignano e delle Canossiane di via Diaz a Brescia, in visita di cortesia ma anche di pura curiosità, sollecitato a parlare dei bresciani illustri, Trebeschi raccontò l’incontro del Consiglio comunale con papa Paolo VI divertendosi non poco a chiedere ai piccoli ospiti se erano a conoscenza del fatto che quel Papa, alla loro età, era stato abituato a passare qualche giorno di vacanza proprio dalle loro parti, “a Verolavecchia – disse il sindaco -, nella casa in cui era nata e vissuta la sua mamma, Giuditta Alghisi”. Nonostante i generosi suggerimenti di suore e maestre, nessuno sapeva. Ciò non impedì ai piccoli ospiti di diventare padroni degli scranni solitamente destinati al sindaco, agli assessori e ai consiglieri. “Oggi – disse Cesare ai fantastici piccoli uomini arrivati per salutarlo – voi siete la città del futuro: bella, buona, brava, sorridente, gioiosa, aperta alle novità, capace di accogliere chiunque e di condividere con chiunque i beni posseduti. Io vi guardo e vedo in voi la realizzazione dei sogni più belli e importanti. Allora vi dico che, come voi, anch’io sogno una fetta di cielo in cui abitare e tanti amici disposti a condividerla”. Seguirono applausi, baci, abbracci e qualche sincera lacrima.
Lasciando il Comune al termine del secondo mandato, Cesare mi regalò una delle sue normalissime penne biro, di sicuro quella trasparente con cappuccio blu, raccomandandomi di farne buon uso. Poi, nell’ultima intervista televisiva, sapendo che nel caso avessi tirato in ballo l’ipotesi di un bilancio della sua attività di sindaco e di politico al servizio della città mi avrebbe gentilmente “mandato a quel paese”, gli chiesi di spiegare che cosa aveva voluto significare quel suo costante e determinato definirsi laico e impolitico, benché fosse risaputo che lui era fortemente e convintamente un cristiano prestato alla politica. “Se si possa essere laici e cristiani allo stesso tempo e pur dentro la politica, è questione che riguarda i cultori della forma – mi rispose -; per tutti gli altri è normale…”. In quel momento Cesare Trebeschi, al di là del ruolo di sindaco che aveva umilmente e coraggiosamente interpretato, mi confermava quel che era: un laico, un politico al servizio della gente, un uomo schivo ai compromessi, ma fedele alla promessa racchiusa nel Vangelo, quella che mette il prossimo al primo posto e il pane quotidiano a disposizione di tutti…
LUCIANO COSTA