Il virus in Italia e in Tanzania: quale differenza?

Leggo quel che Fabio Stevenazzi, sacerdote e medico, volontario con l’Associazione “medici con l’Africa” a Tosamaganga in Tanzania, ha appena pubblicato e risento il brivido che tanti anni fa mi colse di fronte al quello che tutti chiamavano ospedale ma che in realtà era un ricettacolo di vite destinate a sfumare irrimediabilmente, essendo palese che nessuna medicina poteva sopravvivere in quel mischiarsi di febbre, tosse, denutrizione, abbandono, mancanza di qualsiasi protezione. Ero nel cuore dell’Angola, a Lukala, dove i padri della Congregazione nata a Brescia per volontà di padre Giovanni Battista Piamarta avevano posto una missione che era al contempo presidio di umanità, dispensa di pane e di scarse medicine (tutte quelle che arrivavano grazie alla generosità degli amici delle missioni).

Il cosiddetto ospedale stava su un rialzo del terreno circondato dai resti delle lunghe attese e del poco cibo preparato per dar da mangiare ai ricoverati e a chi li stava aspettando. La struttura, con poche porte e ancor meno finestre, dava l’idea di un magazzino in cui merci e persone erano accatastati senza ordine. Una stanza era ambulatorio, pronto soccorso, medicazione, sala parto, ginecologia, chirurgia, amministrazione, ascolto e didattica; un’altra sembrava una sala operatoria ma si capiva che lì era pressoché impossibile operare; poco oltre uno stanzone stipato da letti malconci occupati da gente malconcia…

“Si fa quel che si può…”, mi disse l’infermiere che forse dirigeva la struttura ma che in realtà era vittima lui stesso del niente esistente. Il missionario che mi accompagnava non profferì parola fin quando, tornati alla chiesa (anche lei con l’appellativo di cosiddetta), accorgendosi che stavo male, incominciò a parlarmi di promesse ricevute dalla capitale e di medici sempre in viaggio verso l’ospedale ma giammai vicini alla meta. Intanto, lassù, nel cosiddetto ospedale di Lukala, la gente piangeva e moriva, perché la terribile legge della malattia del sonno, causata dalla puntura di una mosca malefica, non lasciava alternativa. Così ieri, tanti anni fa, così oggi, sempre e comunque in terra africana. Don Fabio parla del Covid e del modo con cui viene affrontato qui in Italia e in Tanzania. La cronaca è impietosa e induce a riflettere. (Luciano Costa)

Stesso virus, ma niente è uguale

Provare a fare un paragone fra una Terapia Subintensiva Covid’ italiana e una Intensive Care Unit tanzaniana può sembrare un vero azzardo: a parte la finalità sanitaria e il nome, altisonante per entrambe le realtà, poco altro parrebbe accomunarle, e non solo agli occhi di un profano.

Chi ha la singolare ventura di lavorare in un reparto dedicato al Covid in Italia, può raccontare quale complessa e rigida liturgia occorra onorare, prima di poter avvicinare il malato confinato nella sua bolla di contenimento biologico: come si entri con prudenza nella ‘zona grigia’, anticamera in cui sono disponibili tutti i presidi di protezione individuale, già muniti di mascherina Ffp2; in questo ambiente solitamente angusto e saturo di vapori disinfettanti s’indossino, nel rigoroso ordine prestabilito, anzitutto un primo paio di guanti, poi i soprascarpe, gli occhiali protettivi, la retìna per i capelli, la tuta integrale e l’elmetto con la visiera trasparente; poi si calzi un secondo paio di guanti in modo che si sovrapponga ai polsini della tuta e lo si raccordi ad essa con del nastro adesivo; infine si varchi la seconda porta che dà accesso alla ‘zona infetta’, dotata però di ogni genere di apparato biometrico e diagnostico di base, di ogni presidio utile a supportare la ventilazione spontanea del paziente, nonché di ossigeno puro erogabile anche ad alto flusso.

Analoga procedura viene poi seguita fedelmente a ritroso, per tornare nella cosiddetta ‘zona bianca’, a minor rischio d’infezione, con la sola variante che ogni singolo indumento va smaltito nell’apposito contenitore destinato all’inceneritore, oppure immerso a riposare nella Clorina per una mezza giornata. Quasi tutto ‘usa e getta’, a costo non proprio irrisorio… ma non manca nulla né per curare i pazienti, né per proteggere gli operatori.

La Tanzania, invece, impone riti autoprotettivi ben più semplificati e costringe a drastiche limitazioni nelle disponibilità diagnostico-terapeutiche a favore dei malati: un singolo paio di guanti, seppure disinfettato, passando da paziente a paziente, lo si cambia solo se rotto; la stessa mascherina s’indossa per tutto il turno di lavoro; l’ossigeno rischia di essere un lusso per pochi e gli alti flussi di gas medicali sono impossibili da erogare a chiunque.

Cosa mai può accomunare questi mondi sanitari tanto diversi? Una volta varcata la ‘zona grigia’ italiana o la malmessa e cigolante porta tanzaniana, attraverso occhiali protettivi e scafandri trasparenti o coi suoi occhi nudi, l’operatore sanitario s’imbatte negli stessi sguardi dei malati, alcuni sgomenti, altri spenti, altri velati dalla patina maligna del pessimismo e della rassegnazione, altri ancora combattivi.

Ad ambo le latitudini, poi, superata la fase iniziale del rapporto fra sanitario e paziente, più o meno ‘ingessato’, impersonale e asettico, fatto di domande convenzionali e di risposte telegrafiche, nonostante le mascherine dopo un po’ ci si riconosce, e ci si affeziona. La vicenda dell’uno diventa parte integrante dell’altro, perché il tal paziente ha la stessa età di mio padre, la talaltra o il talaltro mi ricordano tanto mia sorella o mio nipote… e quel paziente là in fondo potrei essere io! Chissà, forse qualcuno, sia paziente che sanitario, potrà sorprendersi a desiderare di pregare per il bene dell’altro, per la sua salute, perché siano alleviate le rispettive pene e ciascuno protetto dai pericoli… di sicuro, comunque, entrambi sperimenteranno di essere dalla stessa parte nel fronteggiare un nemico tanto insidioso, temibile e subdolo, ed entrambi ricercheranno nella qualità dei gesti e degli sguardi, e nel calore delle parole di rassicurazione e gratitudine, quella prossimità e quel contatto fisico che magari non sono realisticamente prudenti e raccomandabili, ma che sono altrettanto essenziali dell’aria perché profumano di fraternità.

Ecco: in effetti non c’è maggior distanza immaginabile fra le stanze d’isolamento a pressione negativa dagli infissi satinati dei nostri nosocomi occidentali, e i cameroni con le zanzariere strappate di un ospedaletto rurale africano, come pure non pare esservi la più tenue possibilità di paragonare la preziosità di un set completo di maschere di Venturi o di un respiratore per praticare la respirazione assistita, con un rotolo di cerotto di tela con cui è possibile raccordare alla perfezione, grazie a un gocciolatore per flebo tagliato a metà, il grosso beccuccio dell’erogatore di una bombola di ossigeno con l’esile tubetto di una nasaliera. Ma a ben valutare, al netto della disparità dei risultati clinici ottenuti – disparità che c’interpella e che c’inquieta non poco -, ciò che conta davvero, perché resterà scolpito nella memoria di tutti e di ciascuno, è l’esperienza di una gravissima crisi sanitaria che sta colpendo indiscriminatamente l’intera umanità, ma che ci sforziamo di fronteggiare al meglio tutti insieme, senza scordare chi siamo gli uni per gli altri.

Don FABIO STEVENAZZI

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