Impossibile ma possibile che Ucraina debba morire

Impossibile non avere occhi e cuore rivolti all’Ucraina, nazione che il folle zar delle (sue) russie, tale Vladimir Putin, vuole sottomessa al suo volere, parte dei suoi sporchi giochi, pedina di scambio per i suoi interessi. Impossibile non amare l’Ucraina, terra di contadini che nella sua bandiera ha l’azzurro del cielo e il giallo del frumento coltivato nelle sue immense pianure. Impossibile non stare dalla parte dell’Ucraina, nazione che la sua libertà e la sua democrazia, conquistate con immani sacrifici, la sta difendendo a rischio della sua stessa sopravvivenza. Impossibile concedere a chi dell’Ucraina vuol fare brandelli – sempre lui, il folle zar di russie da lui medesimo inventate -, che risponde al nome di Vladimir Putin, il diritto di vestirsi di agnello quando è soltanto un lupo mannaro (chi glielo concede, come è accaduto stanotte all’Onu, dove più di un delegato ha alzato la mano per dire che non accettava la risoluzione che condannava l’invasione dell’Ucraina, è complice dichiarato di una tragedia che si sta consumando sulla pelle di persone che vorrebbero soltanto vivere avendo come compagna di viaggio la pace e non la guerra.

Ieri i ragazzi di una scuola secondaria hanno invitato coetanei e amici di altre scuole a evitare che l’imminente Carnevale sia contrassegnato da travestimenti e oggetti che abbiano affinità con la guerra. “Sarebbe il caso di cancellare il Carnevale e di sostituirlo con una sfilata di pace aperta alla partecipazione di chiunque voglia costruire un mondo in cui non vi sia posto per armi e guerre…”, ha detto un insegnante. Ho chiesto a una dirigente scolastica se quell’insegnante fosse fuori o dentro la logica della scuola. Mi ha risposto che “è dentro nella misura in cui segue le direttive. ma fuori se prende iniziative non contemplate dalle direttive”. Tanto burocratese mi ha portato a concludere che da una scuola siffatta, salvo eccezioni, è difficile sperare possano uscire ragazzi in grado di essere protagonisti del loro e nostro (di noi vecchi e anziani) futuro, che siano portatori di pace, fautori di civiltà, sostenitori di un mondo abitato da uguali…

Davanti al televisore che sfornava immagini su immagini di terre bruciate e bombardate, sono riandato a quel giorno d’agosto in cui a Odessa – città oggi parte dell’Ucraina ma ieri asservita all’Unione Sovietica –, dove la nave da crociera, russa a tutti gli effetti, ci aveva portato per farci conoscere il valore di un sistema che metteva tutti sullo stesso piano (salvo i crocieristi, che pagando valevano di sicuro qualcosa in più dei soliti tutti), cercando acqua con cui vincere l’arsura provocata dalla grande calura, trovammo rubinetti chiusi e l’invito a dissetarsi con champagne ruskj, freddo ma assolutamente imbevibile. Fu allora che conobbi Serghej, un insegnante di lingue che sognava di vistare l’Italia, terra libera e felice, padrone soltanto della sua intelligenza, che per vivere doveva però prestarla allo Stato in cambio di una paga miserrima e di un posto in una comune in cui vivere, dormire e aspettare un nuovo giorno. Serghej ci guidò alla scoperta di una fonte a cui dissetarci e ci parlò della città, della rivoluzione vantata come libertà e invece opprimente come qualsiasi dittatura. Volevamo lasciarli almeno qualche dollaro (allora erano ancora di moda) ma li rifiutò perché, se scoperto a possederli, avrebbe dovuto spiegare ai poliziotti dove e come li aveva recuperati o addirittura rubati. Ci chiese soltanto una camicia, una qualsiasi, da sostituire a quella, unica e rara, che indossava e che mostrava i segni dell’usura. A noi bastò correre a bordo della nave per recuperare quel che Serghej ci aveva chiesto; a lui sarebbe servita tutta l’accortezza possibile per mettere una camicia addosso all’altra per difendersi dall’invidia e passare oltre. Serghej mi scrisse raccontandomi nostalgie e speranze. Ogni volta gli rispondevo raccontandogli un pezzo d’Italia e assicurandogli che se il tempo fosse stato galantuomo avrebbe permesso a lui di visitarci e a noi di accoglierlo. Credo che la censura e non lui abbia letto le mie lettere. Così era l’Unione Sovietica… così era il comunismo che sovrintendeva ogni suo passo. Poi, decaduto l’impero, caduti i muri vergognosi alzati in sua difesa e chiamata Russia la nazione sopravvissuta allo smembramento delle vecchie repubbliche, sembrò nascere un nuovo giorno. Ma ebbe vita breve. Bastò infatti s’affacciasse alla ribalta un folle vestito da grande dittatore, tale Vladimir Putin,  per cancellare qualsiasi sogno di libertà e di democrazia.

A Kiev, capitale dell’Ucraina, si spara e si muore, Il mondo osserva la tragedia, invoca pace, minaccia sanzioni economiche contro l’invasore mentre il presidente di un’Ucraina condannata a morte grida: “Ci avete lasciati soli”.

Oggi, probabilmente, assisteremo alla fine dell’Ucraina libera e democratica. Perché questo vuole Putin, perché di questo si cibano coloro che a Putin concedono di fare e disfare a piacimento confini e governi.

Chi spiegherà alle nuove generazioni che un giorno di febbraio del 2022 tutto questo è accaduto, che la guerra ha imposto il suo volere, che la convenienza di e non la ragione ha guidato i passi di tanti governanti?

LUCIANO COSTA

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