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In Cina si può essere ricchi, ma nessuno deve saperlo…

La Cina arbitra delle fortune del mondo? Può darsi. Però, nel frattempo fa i conti con i suoi conti, che non tornano. A fonte di chissà quanti milioni di persone che vivono con poco, infatti, nella grande Cina comunista c’è chi vive da nababbo, come vero e proprio ricco occidentale. Però, dicono i capi della Cina, la ricchezza privata non è un peccato, almeno se resta nascosta. Insomma: basta non farla vedere. E perché non ci fossero margini per dubitare del rigore, ecco che di fronte alle troppe divergenze di reddito e di possibilità di spesa e quando il rischio di ostilità verso i Paperoni cinesi diventava evidente e metteva in pericolo la credibilità del sistema, ecco la campagna moralizzatrice che a partire dal settore pubblico è andata a colpire anche chi si trova in un ruolo di responsabilità e di potere nel settore finanziario.

Secondo cronache aggiornate, sotto tiro sono finiti innanzitutto i dirigenti, già sospettati di beneficiare maggiormente dalla corruzione e in diversi casi anche colpiti per questo da provvedimenti giudiziari che tuttavia hanno la responsabilità di gestire un settore che vale 57mila miliardi di dollari. Su di loro, in concomitanza con l’uscita dalla fase acuta dell’epidemia di Covid-19, su di loro, sulla loro ricchezza e sullo stile di vita spesso sopra le righe, si è appuntata l’attenzione dei mass media, dell’opinione pubblica e, infine, delle autorità moralizzatrici del Partito.

Recentemente sono state poi applicate riduzioni di salari e benefici, ma anche un codice di condotta che impone di non indossare sul lavoro abiti e orologi costosi, di ridurre spese di viaggio e di svago. Tutto ciò che le autorità identificano come tipico delle caste finanziarie occidentali ma che in Asia e non solo è sempre più individuato come tipico dei “nuovi ricchi” della seconda potenza economica globale sollecitati a perseguire un benessere persino imbarazzante purché non in contrasto con i programmi e l’autorità del Partito comunista cinese.

La situazione mostra non solo che la moralizzazione va sempre più coinvolgendo vari livelli del partito-Stato, ma anche come la “presa” del presidente Xi, giunto al terzo mandato e dotato di potere pressoché assoluto, possa indirizzare alla moderazione – che vuol dire “ricchezza sì, ma senza farla vedere, senza ostentarla, senza farla uscire dagli schemi popolar-comunisti” –  un Paese che invece sembrava ormai proiettato al benessere personale, con capacità di spesa elevata e inevitabile ostentazione del proprio rango.

Per far fronte a questa situazione, la riforma in corso nel settore finanziario di Stato o misto include riduzioni di bilancio indicate come necessarie per affrontare il divario di reddito e per equiparare i salari e benefici a quelli dei pubblici dipendenti. Nel timore di mancare questi obiettivi e di sollecitare l’attenzione del partito, si è instaurata una corsa al ribasso. Come citato dall’agenzia Reuters sulla base di testimonianze da fonti dirette anche se tenute anonime, la Citic Securities sta riducendo anche del 15 per cento gli stipendi della sua divisione bancaria, mentre la rivale China International Capital Corp ha ridotto a maggio dal 30 al 50 per cento i bonus annuali per gli investitori finanziari. Altre banche, come la Industrial and Commercial Bank of China e la China Construction Bank Corp prevedono di cancellare da subito diversi benefici per i dipendenti delle sedi centrali e tra questi i bonus-vacanza del valore equivalente a 200-250 euro.

I quasi due miliardi di cittadini cinesi forse non lo sanno, ma dalle loro parti essere ricchi è e rimane un problema. Insomma, se la ricchezza sia un bene o un male, da quelle parti, è e resta un mistero irrisolto.

LUCIANO COSTA

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