Se ne è andato avanti due giorni fa, un lunedì qualsiasi, forse perché aveva affari urgenti da sbrigare dalle parti del Paradiso che il buon Dio riserva ai buoni; o perché era stato invitato alla corsa intorno al mondo – magari una Mille Miglia, la corsa più bella che ci sia, moltiplicata però per mille o diecimila volte il suo valore -, gara unica e irripetibile, da correre sulle ali del vento e tra batufoli di nuvole soffici come panna montata; oppure perché, semplicemente e naturalmente, il suo tempo era scaduto e gli anni e gli acciacchi imponevano il distacco. Sono sicuro che Vittorio (Vittorio Palazzani, protagonista e testimone della Brescia che lavora, produce, stupisce, innova, inventa e corre, industriale che al ruolo di guida volentieri aggiungeva l’amicizia sincera e vera per i suoi operai e dipendenti, esperto di automobili e di meccanica applicata all’automobile, uomo mite e generoso, cittadino esemplare di questa e quella ideale città dell’uomo, che tutti accoglie e che nessuno manda indietro a mani vuote) è andato dove di tutti è la terra con un solo rimpianto: poter vivere almeno un altro giorno, giusto il necessario per riunire amici e nemici e con loro brindare alla vita, che va e che viene, che riserva sorprese e che non smette mai di stupire, per invitarli a sorridere e ad avere fiducia, per dire e ribadire la bellezza di esistere, per sé e anche per gli altri, magari quelli che passando tendono la mano…
Vittorio Palazzani, che il tempo mi ha permesso di annoverare tra coloro con i quali era bello discutere di tutto, certo delle corse in auto (fiammanti o d’epoca, senza eccessiva distinzione) ma anche della bontà e genuinità del salame bassaiolo, era una delle poche persone con le quali era possibile navigare liberamente per l’universo conosciuto, sfiorando lo scibile, smontando e rimontando i cosiddetti massimi sistemi, sempre attenti a non sciupare tempo, idee e pensieri.
Diceva l’essenziale con garbo e genuino rispetto della brevità, si spostava con incredibile destrezza e velocità dall’ufficio all’officina (“il primo – spiegava Vittorio al giornalista ignorante la sua parte – è buono per ragionare, discutere, progettare; la seconda per misurare la bontà di ciò che, appena immaginato deve essere messo alla prova”), costruiva marchingegni per automobili di tutti i tipi, non amava il chiuso dei palazzi dirigenziali preferiva invece sovrintendere l’azienda alternando rapide e pratiche presenze con presenze virtuali, fatte di cellulari che squillavano in continuazione e di appuntamenti fissati nei luoghi più disparati della città e della provincia o, non di rado, ai box di qualche autodromo dove amava provare sia le potenti fuoriserie, sia le monoposto di formula uno, ma anche quelle “veterane” che rappresentavano l’essenza della storia automobilistica e che dalle sue parti, a Brescia e nel mondo, erano il segno di una passione che una corsa bella e unica – la Mille Miglia ritrovata e attualizzata – rimetteva ogni volta e ogni giorno al centro delle attenzioni.
Vittorio Palazzani, oltre che valente industriale era infatti anche un ottimo pilota, “uno che ha vinto tanto e bene – mi spiegò un amico fidatissimo oltre che apprezzato collaudatore -, uno che senza la subdola malattia arrivata a ingarbugliare i suoi giorni, avrebbe potuto continuare a vincere”. Invece, pur restando nelle corse, smise di correre. Però, la Mille Miglia, che con quattro amici aveva tolto dall’oblio e rimesso in circolo senza lesinare fatiche e contributi assegnandole il titolo di “storica” e che poi aveva vinto mettendo in mostra competenza e coraggio in abbondanza (si correva allora tenendo sulle ginocchia il gran libro che, al tempo stesso, era guida e bussola per non smarrirsi, altro che radar e cellulari e marchingegni ipertecnologici), lui, quella Mille Miglia, ogni anno e sotto qualunque pioggia o sole, andava a salutarla e ad accarezzarla da vicino.
Poi, un giorno di quelli da dimenticare piuttosto che da ricordare, costretto a dar ragione alla malattia, con un groppo che gli serrava la gola e che gli impediva di gridare la sua amarezza, si ritirò dalle corse. Però, rimase in pista… Rimase tra i patron della Minardi (scuderia che, insieme agli amici bresciani, aveva rilanciato e restituito alle corse con qualche ambizione di successo), consigliere apprezzato di quasi tutti i piloti che facevano parte del grande circo della Formula Uno, gran suggeritore di strategie, scopritore di talenti, sostenitore intelligente di piloti che, senza aiuto, non sarebbero riusciti a reggere il ritmo delle corse e dei relativi costi, appassionato di qualunque corsa, purché degna di tale nome…
Vittorio, che avrebbe compiuto ottantaquattro anni il prossimo 7 dicembre, non mancava di gridare la sua felicità ai quattro venti. “Sì – mi diceva convinto – sono un uomo felice e fortunato che dalla vita ha ottenuto tutto: una famiglia straordinaria, un lavoro che mi consente di vivere bene, amicizie vere e consolidate, una passione per l’automobilismo che cresce anziché diminuire, anche una malattia che mi obbliga a qualche rallentamento e con la quale ho però imparato a convivere”. Aveva il morbo di Parkinson. “Ce l’ho da così tanti anni che ormai non li conto più – mi confidava – e so che con lui posso patteggiare ma non vincere. Importante è che mi lasci fare tutto quello che faccio”. Con “la forza dei nervi distesi” (questa volta la vetusta pubblicità aiuta a comprendere la forza dell’uomo) lui la malattia l’ha tenuta al guinzaglio obbligandola, fin che ha potuto, a ubbidire piuttosto che a devastare.
Però, mentre già la campana suona per invitare gli amici e la città a riunirsi per rendergli l’ultimo saluto, i ricordi riprendono forma e sostanza. Lo rivedo, dopo aver vinto la Mille Miglia del 1982, primizia di tante altre avventure di successo, intento a spiegare a Costantino Franchi e ai quattro amici compagni d’avventura, come lui folli e follemente impressionati dalla mole di impegni che siffatta corsa obbligava a mettere in conto, che quella corsa storica avrebbe sconvolto il mondo degli amatori confermando di essere la corsa più bella, desiderata e amata del mondo. Lo osservo guidare la combriccola di amici, con tanto di curiosi cronisti e affabulatori al seguito, tra le pieghe del salone dell’auto di Ginevra dove, anche per suo diretto interessamento, era d’uso scoprire di che pasta era fatta la Mille Miglia di quell’anno. Rileggo la risposta che mi diede quando gli chiesi se e come era possibile inventare, costruire, organizzare, cioè assemblare un museo dedicato alla Freccia Rossa, niente altro che alla Mille Miglia. “Se Brescia vuole, si può fare. In fondo basta un sito praticabile, basta la volontà di farlo, basta chiamare a raccolta gli appassionati e il gioco è fatto…”.
C’era allora alle porte della città, a sant’Eufemia, un convento in disuso, diroccato e senza altra prospettiva se non quella di essere ridotto a macerie. Qualcuno si prese la briga di andare a dire a Giacomo Bontempi, in quel periodo apprezzato presidente dell’Automobile Club di Brescia, che forse valeva la pena di chiedere al Comune, proprietario del convento in fase di avanzato disfacimento, di metterlo a disposizione con l’impegno di ristrutturarlo e farlo così diventare il Museo della Mille Miglia. Seguirono infiniti conciliaboli, ognuno importante sebbene mai decisivo. Però, ogni volta era quella giusta per ribadire che il museo doveva essere fatto. Poi, quando sindaco della città era Mino Martinazzoli, quell’idea prese forza e costrutto. Così, poco prima di concludere la sua fatica, accogliendo i convinti sostenitori del “folle progetto pensato per regalare alla città e al mondo delle corse il museo della Mille Miglia – Enzo Cibaldi, che aveva osato l’impossibile per rendere credibile la sfida, Giacomo Bontempi che aveva obbligato l’Ente a sposare il progetto, Vittorio Palazzani, che solitario s’era avventurato sulla strada del museo e pochi altri addetti al sostegno dell’opera – il Sindaco che mai aveva guidato un’automobile, firmò l’atto che consentiva di trasformare il convento di sant’Eufemia in museo della Mille Miglia, la corsa automobilistica più bella del mondo.
Altri ricordi riaffiorano e vorrebbero essere messi in pagina, Invece resta solo lo spazio per dire: “Ciao, Vittorio! Ti sia lieve la terra e felice la corsa che porta al paradiso riservato a chi, come te, ha sorriso alla vita e convinto tanti a fare altrettanto”. Perché, come amavi ripetere, “nonostante tutto la vita è bella…”.
LUCIANO COSTA