Inchiesta di The Economist sull’eutanasia

Le leggi sull’eutanasia si diffondono sempre più rapidamente in Occidente, in una crescente accettazione da parte dell’opinione pubblica; si pongono dilemmi complessi e sta mutando la concezione stessa del morire, lo sguardo di ciascuno sulla fine della vita propria e altrui. È il settimanale britannico The Economist a descrivere il grande cambiamento culturale in corso nei Paesi di cultura occidentale: in un approfondimento del suo ultimo numero descrive la situazione attuale laddove parlamenti e tribunali depenalizzano o regolano la morte su richiesta.

Il colpo d’occhio lo dà la mappa a corredo dell’articolo: il Canada, 10 Stati della confederazione Usa, l’Europa occidentale, la Nuova Zelanda e l’Australia, e poi Colombia, Perù, Cile ed Uruguay sono evidenziati rispetto al resto del mondo con colori diversi, a indicare dove la legalizzazione della morte procurata è avvenuta o se ne sta discutendo, spesso a seguito di casi e sentenze di tribunali.

Lo stile dell’inchiesta del settimanale britannico è quello di chi cerca di descrivere con equilibrio lo stato dell’arte dal punto di vista normativo, rappresentando anche le diverse posizioni in campo, contrarie e a favore dell’eutanasia legale, con le storie di alcuni protagonisti – studiosi, medici, malati e familiari. Ma il tono rassicurante non riesce a stemperare un’inquietudine di fondo che emerge fra le righe.

Innanzitutto si sottolinea che «il cambiamento è stato rapido», supportato dalla secolarizzazione e dal consolidamento di un orientamento valoriale liberal a cui si aggiunge un elemento generazionale: coloro che hanno vissuto l’esperienza della sofferenza dei genitori ora si battono per il proprio diritto a morire, e sono in particolare i baby-boomers (i nati tra anni 50 e primi 60) a essere chiamati in causa, anche quando si fa cenno a gruppi clandestini di persone che condividono in rete procedure per suicidarsi. Emerge inoltre una generale riluttanza dei legislatori a fronte della tenacia dei sostenitori del diritto a morire che hanno portato avanti per anni le loro battaglie, spesso vincendole grazie a sentenze di tribunali, come avvenuto in Canada ed Europa.

Molti i Paesi di tradizione cattolica che si stanno avviando verso un riconoscimento della morte procurata: dal Cile all’Irlanda passando per l’Italia, l’Uruguay e il Portogallo, mentre in Spagna una legge in merito è stata approvata. Trent’anni fa la morte su richiesta era vietata ovunque, con l’eccezione della Svizzera: la legalizzazione ha avuto inizio nel 1997 con l’Oregon, che ha regolato il suicidio assistito, e da allora sono arrivati a 10 gli Stati Usa che hanno adottato una normativa analoga. In Australia ha iniziato lo Stato di Victoria nel 2017, con la sua legge Vad (Voluntary assisted dying), ripresa poi da tutti gli altri della federazione, tranne il Nuovo Galles del Sud. In Belgio, Colombia e Olanda l’eutanasia è possibile anche per bambini in stato terminale. In Gran Bretagna un progetto di legge in merito ha superato la seconda lettura alla Camera dei Lord lo scorso ottobre, mentre in Austria si sta lavorando intorno a una sentenza della Corte europea dei Diritti umani del 2011 sul diritto alla scelta di modalità e tempistica della propria fine. In Germania una sentenza della Corte Costituzionale nel 2020 ha depenalizzato l’aiuto a morire, mentre in Canada la Maid (Medical assistance in dying), approvata nel 2016, dal 2023 consentirà l’accesso alla morte su richiesta anche a chi soffre solo di malattie mentali, per evitare discriminazioni.

Si ripete così, secondo il bioeticista olandese Theo Boer intervistato da The Economist, lo stesso errore fatto in Olanda, dove vent’anni di applicazione della legge sull’eutanasia l’hanno trasformata «dall’ultima risorsa per prevenire una morte terribile all’ultima risorsa per prevenire una vita terribile». Non mancano infatti controversie, contestazioni e perplessità di fronte all’eutanasia legale, a partire da quelle suscitate dal consentirla anche ai malati di demenza, così come dalla proposta olandese di assecondare la domanda di morte anche di chi non è malato ma ritiene di avere “completato” la propria vita. Studiosi sottolineano le ragioni della richiesta di farla finita, spesso esistenziali più che di sofferenza fisica, e parlano del cambiamento culturale della “buona morte” che diventa un evento programmato, controllato, talvolta persino attraente, «su una spiaggia, in una foresta, durante una festa». Una morte organizzata, insomma, nel tentativo di eliminare il dolore, l’incertezza, il mistero, e quindi la paura, che da sempre avvolgono la fine della vita. Legittimo il desiderio di morire in pace, senza timore né patimenti. Regolamentare l’omicidio su richiesta, però, è la risposta giusta?

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