Gli imprenditori agricoli, qualunque sia la dimensione della loro azienda, sanno che se mettono un indiano in stalla sono sicuri che le vacche e gli animali ospitati finiscono in buone mani. Di stalle accudite da emigrati dall’India ce ne sono parecchie. Una settimana fa fatto scalpore la decisione di creare a Sabaudia, cittadina laziale, una zona rossa attorno al villaggio abitato da indiani. Forse preoccupati o forse soltanto curiosi, in tanti si sono chiesti: “Quanti sono gli indiani in Italia?”. Appunto, quanti sono? Parecchi, dicono le statistiche. Però gli emigranti che arrivano dall’India non fanno notizia.
Anni fa, quando il fenomeno migratorio non era ancora invadente, uno di loro, arrivato nella Bassa bresciana con fame e figli al seguito, dopo aver mostrato la sua capacità di dare alla stalla una nuova fisionomia – pulita, arieggiata, accomodata in modo che gli animali si sentissero se non felici almeno soddisfatti del trattamento -, spiegò al titolare che far arrivare altri fratelli era un buon affare. “Costano poco – gli disse – lavorano tanto, amano gli animali e non c’è erba che non sia loro amica”. Ne arrivarono altri tre, poi altri ancora, ognuno destinato a una stalla che un segreto ufficio di collocamento fatto di passa parola e nulla più, già aveva individuato.
Allora, al primo indiano arrivato nella cascina della Bassa, chiesi che cosa l’aveva fatto allontanare dal suo Paese. “Innanzitutto la fame – mi rispose -, poi il bisogno di avere a sufficienza per fare famiglia e mandare i figli a scuola…”. Era sincero, però ogni sua parola si scontrava con l’idea di un’India paese modello di civiltà, di tolleranza, ben educato e ben governato, sede di università prestigiose, in grado di far crescere scienziati a loro volta capaci di innovare e di impostare la grande rivoluzione tecnologica.
Un professore che avevo conosciuto quando mi era capitato di andare in India per scoprire, tra l’altro, il mondo di madre Teresa di Calcutta, mi spiegò che “l’immagine di un’India felice, quella comunemente esibita dalla pubblicità, non è veritiera. Infatti, non tiene conto di chi è costretto a vivere a margine: sconosciuti, poveri, ammalati, abitanti di villaggi che neppure sono segnati sulla carta geografica, gente che sogna la città raccontata dalla televisione ma lontana e mai vista, giovani che non sanno se domani potranno ancora esistere…”. Era la stessa India che madre Teresa di Calcutta, piccola grande santa sorella dei disperati, accudiva e amava.
E’ a quest’India dalle mille sfaccettature e dai mille contrasti –povertà e ricchezza, oro e cenere, lavoro e miseria, scienza e ignoranza – che ho pensato in questi giorni in cui è salita ai vertici dei contagi e dei morti a causa della pandemia: venti milioni i casi in tutto il Paese, 220mila i decessi in totale, oltre 350 mila nuovi casi e 3.500 morti in un giorno. Ma sono cifre per difetto, assicurano gli esperti.
“Il gigante asiatico da un miliardo e 400mila abitanti – ha scritto ieri Vatican News -, sta vivendo una tragedia infinta: persone che muoiono in strada, ospedali saturi e senza ossigeno né ambulanze, tempi lunghissimi per sottoporsi ad un test per il Covid e medicine di base quasi esaurite, con le persone che prendono quelle scadute, perché saranno un po’ meno efficaci ma almeno è qualcosa”. Vittima del virus (e perdonate se risulterà ridicolo l’accostamento) persino il torneo di cricket, il più ricco nel mondo, che per valore economico eguaglia quello messo in circolo dal football americano e dal calcio europeo.
L’India è in ginocchio, stremata, avvilita… Ma non è forse vero che l’India produce oltre il 60% dei vaccini contro il coronavirus? Verissimo. Ma si dà il caso che non li produca per sé. Infatti, a casa propria, l’India è assolutamente carente: da gennaio solo il 10% degli abitanti ha ricevuto una dose di vaccino e solo l’1,5% entrambe. “Gli ospedali sono in situazione di grandissima difficoltà, gli obitori – raccontano le agenzie di stampa – non tengono più il conto, le pire di fuoco con i cadaveri che bruciano fanno purtroppo parte del paesaggio”. Tutto questo ha conseguenze non solo sul fronte sanitario, ma anche sul fronte dell’igiene e, soprattutto, su quello della dell’alimentazione. “Centinaia di migliaia di bambini – scrive ancora Vatican News – non hanno più accesso neanche all’unico pasto quotidiano di cui finora avevano potuto godere, quello ricevuto nelle scuole, che ora sono state chiuse”. Oggi in India ci sono 140 milioni di persone senza lavoro, persone che non hanno le risorse per procurarsi il cibo… Sempre lì ci sono milioni di bambini che sperano.
LUCIANO COSTA