Quando sei in partita e rischi di prenderla, meglio togliere il campione dalla panchina e metterlo in mischia. Draghi, col passo felpato e le idee per fortuna chiarissime, mentre la squadra era sotto non di uno ma di due gol, è sceso in campo e subito ha spiegato ai suoi che la prima regola per vincere era di credere fortissimamente che la vittoria era possibile. Quindi, avanti, giochiamola fino in fondo questa singolar tenzone, che se battiamo prima la paura e la diffidenza, forse ce la facciamo ancora a raddrizzare la barca.
“Adesso, però – ha scritto ieri Danilo Paolini -, la partita prosegue e va giocata. Anzi, va vinta: contro il virus, contro la crisi sociale ed economica che la pandemia ha aggravato. Va vinta per l’Italia e per l’Europa unita”. Ovviamente, nessuno, neppure Draghi, può giocarla da solo. “Serve la politica, perché in una democrazia parlamentare neanche il più tecnico dei governi è un governo tecnico fino in fondo. E per fortuna. Servono i partiti, quegli stessi partiti che hanno fallito e falliscono puntualmente da anni in termini di affidabilità, di credibilità, di stabilità. Magari cambiano nome, si fondono, si scindono, si alleano, divorziano, ma alla fine falliscono alla prova delle grandi sfide, dei passaggi decisivi”.
E’ forte e addirittura grande il rimpianto per i tempi in cui i partiti politici erano in grado di formare leader di valore e di chiamarli a essere testimoni e protagonisti delle scelte più adatte per andare oltre le crisi. Oggi, “all’interno di un dramma enorme come quello che stiamo vivendo a causa del Covid-19, il re appare inesorabilmente nudo: cadono, infatti, le chiacchiere buone per i periodi ordinari. E così, l’Italia deve chiedere aiuto a una “riserva”, che si chiama Repubblica. Accadde, in contesti diversi ma ugualmente epocali, con Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e con Mario Monti nel 2011. Eppure non è sempre stato così. Il Paese ha avuto governi a guida politica che lo portarono dal secondo dopoguerra fin dentro il boom economico, che fondarono la Comunità Europea, che lo traghettarono (certo con fatica e non senza ombre) fuori dai terribili anni di piombo, che cercarono di affrontare (in quel caso naufragando) la tempesta di Tangentopoli, che lo condussero dentro l’unione monetaria che proprio Draghi più tardi ha difeso gagliardamente”.
Qualcuno ha ricordato che una delle doti più care a Draghi è il coraggio. “Ebbene – scrive l’editorialista di Avvenire – è giunto il momento che anche la politica riscopra il coraggio: quello di schierare i competenti e i preparati, anziché chi è più bravo a urlare e a schernire l’avversario; quello di ragionare prima (ma sarebbe meglio invece) di andare a caccia di follower e di like; quello del confronto tra posizioni legittimamente diverse al posto di odiosi discorsi da barricata intrisi di vuota ideologia e privi di idee”.
Per il momento, sarebbe già sufficiente il coraggio di non far mancare i voti all’esecutivo “di alto profilo” vale a dire Pd, Forza Italia e M5s. Ed è proprio quest’ultimo, ancora partito di maggioranza relativa nell’attuale Parlamento, che deve finalmente far capire che cosa vuole fare “da grande”. A tutti gli altri -partiti e raggruppamenti di qualsiasi tipo, dimensione e ruolo – è chiesto un atto di responsabilità ben lontano dal comodo “tanto peggio tanto meglio”. Come ha detto il presidente incaricato, “la consapevolezza dell’emergenza richiede risposte all’altezza della situazione”. Se qualcuno le ha, adesso è il momento adatto per metterle in bella evidenza.
In attesa di ricevere risposte all’altezza della situazione, Mario Draghi, il presidente incaricato, è rimasto nel classico “Palazzo del potere” se non per il tempo necessario per mettere insieme carte, pensieri, auspici, messaggi e cumuli di ipotesi buone per formare la “prospettiva” alla quale rifarsi quando e come gli sarà possibile sbrogliare la matassa. Poi, scompaginando il “galateo della crisi”, è tornato a casa sua, alle porte di Città della Pieve, in Umbria, questa volta non solitario, ma in compagnia della scorta, perché così esige la prassi. Buon segno. Un “presidente incaricato” che torna a casa e che al silenzio e alla tranquillità del borgo chiede assistenza e consiglio, lascia perplessi i predicatori inutili ed esalata quelli che alla “politica” riconoscono quelle “buone ragioni” utili a costruire “buon futuro”.
Oggi ne sapremo di più. Per adesso, calma e serenità, mi sembrano una “buona medicina”.
LUCIANO COSTA