La lezione politica di Martinazzoli continua…

Nel giorno che ricorda il decimo anniversario della sua morte avvenuta il 4 settembre 2011, Mino Martinazzoli rimette al centro di un dibattito politico scialbo e ravvivato soltanto da sprazzi che vedono protagonisti i giovani le “ragioni della politica”, che gli anni non hanno offuscato, ma che tutt’ora invocano sostenitori e testimoni che vadano tra la gente a spiegarle quelle ragioni, affinché siano riferimento quotidiano piuttosto che arzigogoli messi occasionalmente in mostra da commentatori e raccontatori propensi “a rimestare l’ovvio invece del necessario”. Mino se ne andò in quel principiare di settembre 2011 dopo aver ricordato a chi era andato a salutarlo quel che aveva già detto davanti alla bara di un amico che senza clamori si era diretto verso l’infinito cielo evitando saluti e raccomandazioni: “Evitate parole vacue, sceglietene dieci e mettetele in fila così che tutti possano comprenderle”. Non ricordo quelle dieci parole, ma alcune mi sono care e le tengo sempre a portata di mano e si chiamano: mitezza, riservatezza, amicizia, verità, servizio… Vogliono dire: parlare senza urlare, cogliere i problemi senza farli diventare pietre d’inciampo, condividere tempo e ruoli senza soffocare, mostrare ciò che conta e non ciò che rende, stare dalla parte di chi tende la mano e chiede di essere aiutato…

Mino, con la raffinatezza del filosofo e la serenità del viandante giunto fin quasi alla meta, spiegò che nel caso si volesse fare di più, per “ricordare con intelligenza chi è andato avanti, sarebbe bello dedicargli un libro; se invece si volesse dimenticarlo, allora rubategli l’ultimo libro che stava leggendo: sicuramente vi dirà a che punto era la sua notte, ma non ancora la vostra”. Era il 4 settembre 2011 quando Mino Martinazzoli (politico di lungo corso, politico antipolitico, forse politico anomalo, di certo politico capace di ragionare mettendo ragioni dove la sufficienza di troppi politicanti metteva soltanto parole vacue) toglieva il disturbo e si avviava verso la porzione di cielo riservata a chi per rendere migliore il Paese aveva sposato la politica chiedendole fedeltà nel servire l’idea piuttosto che nel sopravvivere all’idea costruendole attorno facili approdi ma pessime referenze.

Sono passati dieci anni, ma sembra ieri l’attimo in cui il suo amico Sergio Mattarella lo salutava dicendo con un filo di voce “ciao, Mino, ci mancherai, mi mancherai, ci mancheranno le ragioni che strenuamente assegnavi alla buona politica”. Poco tempo prima Mino era andato a Palermo per ricordare l’anniversario della barbara uccisione di Piersanti, fratello di Sergio, vittima di mafia, grande cuore e viva intelligenza, superbamente proiettato a offrire visioni d’infinito alla sua e nostra terra, coraggioso interprete dell’umana avventura, morto ammazzato per mano di folli convinti di poter porre fine all’dee sparando raffiche di mitra dritte al cuore del giusto… Parlando di quel giorno a Palermo Mino disse agli amici che “la giustizia abitava nella casa di Piersanti” e che “in quella tenace fiducia nella Giustizia respirata tra quelle mura c’era la certezza di vedere sorgere una società più giusta e più nuova”.

Nell’anniversario della morte Mino è stato rimesso al centro delle attenzioni da tanti conosciuti e sconosciuti (politici, commentatori, giornalisti, improvvisatori, editorialisti, intellettuali, usurpatori, venditori di fumo) e, meno male, anche dalla gente, quella che vedendolo al parco del quartiere gli si avvicinava per dirgli “ciao” e per chiedergli di non rinunciare a difendere le ragioni della politica, che, diceva, “sono le nostre e le uniche alle quali possiamo aggrapparci per rendere migliore il presente e il futuro”. Mino annuiva e lasciandosi avviluppare dal fumo delle sue amate sigarette, ribadiva quel che sempre aveva sostenuto. E cioè che “le buone ragioni della politica sopravvivono alla distruzione e resistono a ogni tentativo ordito per dissolverle”.

Oggi qualcuno si chiederà di nuovo se lui, il politico impolitico partito da Orzinuovi col titolo di avvocato e poi diventato quel politico scomodo, addirittura scorbutico coi bugiardi e i venditori di fumo, sia stato profeta di ragioni importanti o soltanto ragioniere di ragioni destinate a scombussolare il quieto vivere di tanti, ma purtroppo non di tutti. Eppure, proprio il tentativo coraggioso, assiduo e appassionato di spiegare le “ragioni della politica” era stato per Mino l’imperativo assoluto del suo modo di essere membro del Parlamento (prima come senatore e poi come deputato), sindaco della sua città, consigliere regionale in Lombardia, relatore mai banale laddove il coraggio del “dibattito e del confronto” imponeva di essere “chiari e limpidi come acqua di ruscello”, “forti e risoluti” nel proporre, nel non tacere e invece nel sostenere le ragioni della buona politica.

Tanto è stato detto e scritto di Mino e del suo tempo. Ma tanto resta ancora da dire e da scrivere. Con qualche rimpianto, per esempio, c’è da constatare come il suo ricordo appartenga più alla norma imposta dal calendario riservato agli uomini illustri che al dovere di mettere “segni sogni azioni e parole consumate in cinquant’anni di onorato servizio alle istituzioni e alla politica” a disposizione della gente, per aiutarla a comprendere il valore degli anni donati alla politica, per far sapere ai giovani quello che i vecchi hanno già dimenticato. Certo, si parla di Mino Martinazzoli come politico raffinato, come mite interprete del pensiero democratico-cristiano, come spaesato errante tra le pieghe di un partito, il suo partito, che in sé riuniva fede, azione, vangelo, testimonianza, democrazia e cristianesimo vissuto piuttosto che esibito, ma ogni riferimento è occasionale, frutto di pensieri anche loro occasionali seppure messi in circolo da gente amica e certo affezionata al suo personale vissuto.

Oggi Mino continua a vivere in “…Castenedolo incontra”, appuntamento che sistematicamente offre ai bresciani occasioni per discutere di politica e di cultura, vive tra le pieghe della cronaca, almeno quando un suo pensiero serve a cambiare prospettiva, c’è dentro i discorsi che chiamano la politica per nome e invocano confronti e dibattiti per rafforzarla. Invece, a Brescia e dintorni, non c’è ancora una piazza – Piazza Mino Martinazzoli, avvocato e politico – in cui trovarsi per cercare le fondamenta delle ragioni che sorreggono e devono sorreggere la politica; non c’è un luogo a lui intitolato, magari il parco che a in frazione Caionvico, sua ultima residenza, gli dava ospitalità assicurandogli la buona aria discendente dal Mascheda; non c’è uno scaffale sul quale trovare allineati i suoi scritti, un cassetto che custodisca i fogli sparsi contenenti discorsi e appunti dedicati alla città, un archivio analitico dei suoi passi, dei suoi detti e contraddetti, dei rapidissimi aforismi e delle saporose citazioni con cui condiva il suo dire… Però, c’è almeno il tomo che racchiude gli interventi che hanno caratterizzato la sua stagione parlamentare, ma quanto è difficile trovarne una copia disponibile! Però da oggi, in apposita bacheca messa a disposizione dalla Biblioteca Diocesana “Monsignor Luciano Monari”, rivive il “fondo librario” accumulato da Mino e ora, per volontà della famiglia, a disposizio0ne di tutti.

Tra le carte che Cesare Trebeschi ha lasciato in eredità a figli, nipoti, amici, studiosi, storici e curiosi e che prima di diventare memorie lui stesso mi aveva concesso di vedere, ricordo una lettera indirizzata a Mino Martinazzoli per raccomandargli “di non cedere alle lusinghe degli insinceri” e di avere invece “a cuore la sorte di un partito popolare che si ostina a rivendicare e a proporre una democrazia davvero cristiana” e anche la risposta che il politico gli fece pervenire assicurandogli di essere sordo alle lusinghe, lontano dagli applausi e invece sempre convinto che un sistema senza una vera democrazia cristiana impoveriva la società e lasciava spazio ai venditori di nulla”. Cesare, in uno degli attesi conciliaboli amicali, mi disse che avrebbe volentieri applaudito Mino, ovviamente solo se questo non l’avrebbe disturbato. Gli riferii che Martinazzoli “odiava la democrazia dell’applauso” ritenendola un di più inutile piuttosto che l’utile conclusione di un dire e di un fare “buono se buono, ma gramo assai se non condiviso”.

Ho letto tra le pieghe di ricordi e di rammendati pensieri, che Mino, uno dei più raffinati esponenti dell’allora sinistra Democristiana, amava dire che “nella prima repubblica c’erano i leader, nella seconda soltanto un numero spropositato di capi e di teste più vuote che piene”. Credo lo dicesse all’inizio degli anni duemila, quindi prima di conoscere la nuova classe dirigente che si stava affacciando e che a partire dal 2013, due anni dopo la sua dipartita, sarebbe approdata a Roma per dar vita a esperimenti vuoti di pensiero ma pieni di parole vane e vacue, quella necessarie per confermare che i capi e i leader erano naufragati insieme alla politica. Almeno di quella politica che era cara a Martinazzoli e che faceva la differenza.

In questo sabato 4 settembre, anniversario della morte di Mino, che in vita è stato un costruttore di buona politica, per favore, guardate il cielo e innalzate per lui un canto di ringraziamento unito a un applauso di sincera ammirazione.

LUCIANO COSTA

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