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La pianta sopravvissuta alla strage dice…

Vent’anni dopo, l’attacco alla libertà, non solo americana ma del mondo intero, ordito dai terroristi resta un enigma indecifrabile: fu follia omicida o lucida follia usata per destabilizzare il mondo civile? I morti ammazzati – poco meno di tremila in quel giorno tragico, sconvolgente, impietoso, mortificante per chiunque avesse cuore-mani-occhi per l’umanità dolente che gli sfilava accanto -, vittime della barbarie terroristica non ebbero neppure il tempo per guardare oltre il buio e vedere la luce a cui affidare parole di speranza da portare ai figli, alle mamme, ai papà, alle spose, ai nonni, agli amici… “Vedo soltanto polvere e sento soltanto pianto e lamenti” diceva Nicoletta, giovane impiegata di uno studio d’avvocati, rispondendo alle domande che il cronista le poneva stando dall’altra parte del globo. Poi, uno scoppio e un altro ancora. “Ho paura, ho paura…” gridava la ragazza. E chi, come me, stava da questa parte a osservare quel che la furia omicida stava provocando non aveva risposte e neppure consigli da offrire. “Coraggio, coraggio…” diceva il cronista. Ma era evidente che prima di tutto il coraggio serviva a lui: per non lasciarsi devastare dal pianto e per trovare parole adatte a spiegare ai tanti o pochi all’ascolto che oltre quell’orrenda carneficina c’erano ideali, speranze, virtù, pensieri, azioni, esempi e lezioni da raccogliere, meditare e trasformare in lezioni di vita. “Pietà l’è morta”, disse allora il cronista; “pietà non esiste” suggerì il giovane operatore; “pietà è alzare gli occhi al cielo per chiedere perdono”, aggiunse il casuale visitatore; “pietà è chiedere silenzio, rispetto e una preghiera che sollevi dall’umana disperazione” concluse la mamma stringendosi al seno il bambino a lungo desiderato.

Ricordo ore passate ad ascoltare domande angoscianti – perché tanta violenza? chi ha armato la mano dei terroristi? chi sono i mostri che si nutrono di stragi? che colpa hanno gli abitanti delle torri o chi lavora dentro le torri o chi passa sotto le torri? è davvero impossibile impedire tanta violenza? che cosa succederà da qui in avanti? ma il Dio giusto e benigno dove sta? – e altrettante ore cercando di offrire risposte che servissero a restituire quiete dove la tempesta aveva seminato paura e distruzione. “Niente sarà più come prima”, dissi concludendo quel giorno amaro, “soprattutto perché da oggi non basterà più affidarsi alla ragione per vincere la violenza e così spiegare ai figli ciò che i padri non sono stati capaci di impedire; sarà invece necessario estirpare le radici del male, mettere fiori nei cannoni, scrivere pace al posto di guerra, amore invece di odio e speranza dove regna disperazione…”. Poi, solo una lacrima e tanta amarezza.

Quella notte rivisitai lo spirito americano che conoscevo (illuso nel suo star bene, forte e pronto a schierarsi contro i nemici della libertà e della democrazia, disposto a tutto per portare aiuti e garantire sicurezze…) e mi sembrò non più incrollabile; rividi New York, la grande città, incominciando da dove la statua della Libertà assicurava a ciascuno l’ingresso in un mondo davvero nuovo, e nuovo perché alle fondamenta aveva posto il diritto di ciascuno di essere uguale e ugualmente tutelato. Poi tutto il resto, sovrastato in quel momento dalle due immense torri, che dalla sommità consentivano al viandante occasionale di vedere e gustare ciò che uomini e donne coraggiosi avevano costruito. Però, quelle torri, in quel triste giorno erano state inghiottite dalla terra portandosi appresso la vita di quasi tremila persone innocenti…

Il giorno dopo scrissi e riscrissi un commento che cercando di trovare ragioni da opporre alla violenza, di fatto non ne trovava una degna di essere proposta come speranza di un tempo finalmente privato da violenza e odio. In mezzo a quel trambusto di paure e idee presero allora forma le immagini di una New York e di un’America avvilite, incapaci di alzare lo sguardo e di cercare il cielo. Poi, nel buio della voragine che aveva inghiottito le torri, risuonarono i nomi delle vittime innocenti e si levò la promessa di fare giustizia, di redimere quel passato e di consegnare alla storia una città nuova… Passarono i giorni, non venne meno il ricordo… Però, non sono più tornato a vedere quel che era successo, ma non ho perso occasione per tentare di capire…

Un mese dopo quell’11 settembre 2001 amaro e avaro di speranza, lessi che dalle macerie fumanti del World Trade Center era spuntata una labile forma di vita: un gigantesco albero da frutto, un pero alto otto metri, piantato nel 1970 nei pressi di Church Street, benché avesse il tronco bruciato, i rami spezzati e in larga parte carbonizzati, non era ancora morto. Mani e menti pietose e lungimiranti decisero allora di trasportarlo in un parco per curarlo. Lì l’albero crebbe fino a raggiungere un’altezza di circa trenta metri e alla vigilia di Natale del 2010 fu riportato nel suo luogo d’origine e trapiantato dove era sorto il Memorial che alla città e al mondo ricordava la morte di tante persone ma anche la forza della speranza che aveva ricostruito quel che i violenti avevano distrutto.

Il grande spazio che celebra la memoria degli attentati dell’11 settembre 2001 ospita oggi oltre quattrocento esemplari di quercia bianca, ma l’albero più fotografato è sempre lui: il Survivor Tree, l’albero che è riuscito a sopravvivere sotto le macerie delle Torri Gemelle. Circondato da un recinto, con supporti che ne sorreggono il tronco e i rami che recano ancora ben visibili le ferite di quel giorno maledetto, è diventato un simbolo straordinario della capacità di resistenza dell’animo umano.

Le pagine di un libro dedicato a quel giorno e ai giorni che seguirono raccontano che “il Memorial è stato realizzato su una superficie di oltre tre ettari nel punto esatto dove sorgeva il cratere delle torri ed è ormai da tempo uno dei luoghi più visitati di New York” che “al centro ha due grandi vasche quadrate di granito profonde quattro metri sulle cui pareti l’acqua scorre incessante mentre lungo il perimetro esterno sono stati incisi, su targhe di bronzo, i nomi delle 2.977 vittime dell’11 settembre e i sei caduti nell’attentato del 1993, quando un altro gruppo di terroristi islamici fece esplodere un camion bomba sotto il World Trade Center” che “i nomi sono stati collocati con cura, mettendo familiari, amici e colleghi uno accanto all’altro, con un sistema di illuminazione che li rende visibili anche di notte e un complesso di condutture che riscalda il metallo impedendo di sentirlo freddo al tatto”. Chi l’ha visitato mi ha detto che “il silenzio quasi surreale della piazza è rotto soltanto dal lento scrosciare dell’acqua – simbolo di rinascita e di speranza – e da qualche voce che arriva da lontano, trasportata dal vento, mentre nuovi grattacieli vegliano sulla piazza come sentinelle della memoria”.

Sono passati vent’anni da quel giorno amarissimo. E venti sono anche i ricordi scritti per non permettere al ricordo di affievolirsi fino a svanire e alle nuove generazioni di avere materiale sul quale costruire un futuro degno di essere vissuto, cioè privo dalla violenza che era andata in scena in quell’11 settembre 2001. Allora si disse “niente sarà come prima”; adesso dobbiamo invece dire che la storia ha rimesso in circolo ciò che credevamo cancellato ricordando a ciascuno che “il sonno della ragione genera mostri”. Però, mi ha detto l’anziana donna che non smette di sognare cieli e terre nuove, “un mondo migliore è ancora possibile”. Chissà, nonostante tutto, forse ha ragione lei.

LUCIANO COSTA

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