La povertà è in aumento, il divario nord-sud si accentua, chi non ce la fa invoca provvidenze, mezzo mondo è considerato cronicamente povero, degli altri due quarti, uno è forse autosufficiente, l’altro sufficientemente benestante o addirittura ricco. “Ma la povertà – come avvertiva Madre Teresa di Calcutta -, non la vedi se non comprendi prima che cosa significa non possedere altro se non il sole che sorge per tutti ma che i suoi benefici non sono uguali per tutti”. Oggi si parla di povertà generalizzata quando i conti non tornano ed è evidente l’impossibilità di assicurare alla famiglia il necessario per vivere,ma anche per crescere e così consentire ai figli di affacciarsi al mondo possedendo cultura e professionalità in grado di renderli protagonisti del loro futuro. La povertà è anche un tema sul quale la politica è chiamata ogni giorno a misurarsi. Qui, voglio dire nel nostro Bel Paese, la povertà ha facce diverse ed è, a seconda di come la si guarda, retaggio atavico, assenza di lavoro o lavoro pagato sotto la media, mancanza di opportunità, diritti non riconosciuti, divario di cultura, scuola che c’è ma che ancora conta assenze ingiustificate e ingiustificabili, norme disattese, diritto alla casa scritto nella Costituzione ma non ancora assicurato e attuato. Poi, pensioni che dovrebbero garantire buona vecchiaia ma che invece, almeno alla maggioranza degli anziani, non concede il bene di vivere con serenità gli anni che restano a loro disposizione. “Ma se la povertà è di tutti, allora diventa ricchezza e gioia…” diceva la Cenciosa rivolgendosi a frate Francesco. Invece, proprio perché se ne parla, ecco che la povertà diventa l’opposto della ricchezza: qui, da poveri, si fatica a vivere; là, da ricchi, si vive alla grande e, addirittura, si sperpera. Sulla porta di una chiesa ho visto un cartello che spiegava come lì non ci fossero poveri o ricchi, ma solo persone che insieme cercano di costruire un mondo degno d’essere abitato. “Entrate – spiegava l’avviso – misurate il bene che potete fare, date la mano al prossimo che vi sta accanto, condividete chi siete e ciò che possedete… Poi alzate gli occhi al cielo e siate felici!”. Ho cercato il prete autore di quell’avviso. Mi hanno detto che era in giro a cercare qualcuno che avesse bisogno di felicità in dono… Mi son o allora chiesto: sono in un paese di matti o sono io che non capisco…
Per capirlo ho letto quel che le Caritas (associazioni ecclesiali ma non solo ecclesiali che si preoccupano di distribuire carità intelligente), riunite a congresso, mandano a dire a proposito di povertà e di azioni per accorciare il divario se non proprio per annullare le differenze. Scopro così he le Caritas sono portatrici di “un piano di corresponsabilità per l’Italia tra Chiesa, istituzioni, Terzo settore e volontariato per contrastare la povertà. Piano di cui Caritas italiana si fa garante”. È la proposta lanciata da Salerno da don Marco Pagniello, direttore della Caritas italiana, in conclusione del 43° convegno delle Caritas diocesane “Agli incroci delle strade. Abitare il territorio, abitare le relazioni”. «In questi giorni – ha spiegato don Pagniello – ci siamo messi in ascolto non solo delle fatiche delle periferie, ma anche delle risorse e delle possibilità perché stiamo cercando di approfondire la via della creatività con la rete delle Caritas diocesane. Essere stati qui in Campania per celebrare il nostro congresso ci ha avvicinato a una regione che è un laboratorio di esperimenti anche relazionali, un paradigma di quello che le Caritas dovrebbero vivere nei loro territori. Da qui, dunque, dobbiamo partire per la ricerca delle periferie esistenziali e geografiche».
Però, presidente, come è possibile definire i luoghi della povertà?
Le aree metropolitane, le grandi città dove le periferie stanno anche nel centro. Ma la povertà in Italia è cambiata dopo la pandemia, ha assunto nuove forme e nuovi volti. Da quella del disagio giovanile, soprattutto gli adolescenti che hanno subito e vissuto il Covid forse più di tanti altri, agli anziani alle prese con un grosso disagio psicologico e spesso psichiatrico.
E i migranti?
Noi vogliamo essere liberi di dire la verità sulla scorta dei numeri, dei fatti e della nostra esperienza. Anche se in questo momento gran parte degli italiani li percepisce come una minaccia, noi invece diciamo con forza che è il futuro che si sta proponendo. Se la denatalità è la minaccia più seria per il Paese e la questione delle pensioni degli anziani è preoccupante, noi ripetiamo che senza il contributo dei migranti non ne usciamo.
Ci sono anche le aree interne che si stanno svuotando…
E che costituiscono una di quelle grandi sfide per il Paese che noi possiamo denunciare, ma non affrontare da soli. Ribadiamo che il paradigma non può esser solo quello economico della spesa, dobbiamo capire cosa vuol dire abbandonare i territori. Che custodia del creato è? Frane come quella di Ischia sono causate anche dalla mancanza di boscaioli e contadini che si prendono cura di terreni e montagne. Poi c’è la questione dei fondi del Pnrr per il Sud che, se non vengono impiegati, finiranno beffardamente al Nord aumentando il divario. Ai nostri incontri di formazione per le Caritas significativamente partecipano anche gli amministratori locali. Altra piaga, soprattutto nel Mezzogiorno, è la dispersione scolastica, contro la quale dobbiamo lavorare di più sulla prevenzione. Tante Caritas diocesane lo fanno, ma nemmeno questo può essere un problema solo della Chiesa. Sono tutti problemi da affrontare con azioni di sistema, coinvolgendo le istituzioni pubbliche, la scuola, le parrocchie, le associazioni. La Caritas deve essere lievito e sale dei territori, abitarli e avviare processi lasciandoli poi andare quando è il momento.
Cosa propone quindi Caritas italiana dopo questo convegno per affrontare vecchie e nuove povertà?
La sfida che ci attende è quella di declinare, dal locale al nazionale, i frutti di questo confronto lungo le tre vie indicate da papa Francesco nel 50° di Caritas italiana: gli ultimi, il Vangelo, la creatività. Proponiamo un piano di corresponsabilità di cui Caritas italiana si fa facilitatrice a livello nazionale, perché le sfide possiamo attraversarle solo insieme, sull’esempio di Gesù. La scelta è di co–progettare, unire, ricomporre, mettere a sistema. Così le pietre di scarto diventano testate d’angolo sulle quali generare un sistema di vita da contrapporre a una cultura di morte.
Ma la politica è disposta ad ascoltare la Caritas?
La nostra proposta di modifica al reddito di cittadinanza è stata ascoltata dal governo. Poi abbiamo detto che va anche ampliata l’offerta di servizi sociali per aiutare chi è senza lavoro. Se ad esempio una mamma disoccupata, non sa dove lasciare i figli perché mancano i nidi e gli asili, come può cercare un impiego a tempo pieno? Non pretendo che il mondo politico ci capisca, ma non siamo solo la stampella della società. La Caritas continuerà sempre a fare anche assistenza, a sfamare i poveri nelle mense e ad aiutare chi non ce la fa. Ma non possiamo fermarci a questo, mai come in questo momento si deve andare oltre l’ideologia e le logiche di schieramento. Vale anche per una parte di associazionismo che bada solo al proprio interesse. C’è un vuoto di pensiero e di cultura, non si riesce ad andare oltre gli slogan forse anche per colpa nostra. La vera sfida oggi è confrontarsi, anche se non tutto andrà come si vuole. Ma dobbiamo provare a costruire insieme. E per questo serve anche un grande impegno del laicato cattolico.
LUCIANO COSTA