La pandemia non conosce soste: le varianti del Covid stanno mettendo a dura prova il sistema sanitario europeo e mondiale e non c’è nazione che possa dirsi indenne. Gli esperti dicono che stiamo attraversando una fase critica e che il picco di tale recrudescenza lo avremo all’inizio dell’anno nuovo. La campagna vaccinale prosegue e il generale Figliuolo, delegato dal Governo per coordinare gli interventi, dice che l’Italia è tra i Paesi che hanno adottato presto e bene le misure necessarie per fronteggiare la pandemia. Però, ieri il tasso di contagio ha superato il dieci per cento e nei prossimi giorni, secondo gli esperti, andrà ancora peggio. In questa fase i più esposti al virus sono i giovanissimi e i giovani. “E’ a loro –dicono i sanitari – che dobbiamo riservare la massima attenzione”. Ma tutto questo, ha scritto il professor Walter Ricciardi “rischia di rimanere un inutile esercizio precauzionale se non si interviene per bloccare il virus dove sorge e dove si diffonde. Quel che serve è la vaccinazione di tutti, qui e in ogni Paese, compresi quelli più poveri, dove purtroppo le condizioni di vita restano disastrose”. E’ un antico e irrisolto problema quello della globalità delle cure! Dice senza attenuanti che dove c’è benessere è facile curarsi, ma dove non c’è benessere curarsi è pressoché impossibile (ho visto gente dividere in quattro una pastiglia di aspirina sperando servisse a guarire i bambini) e vivere e morire sono parte di un amarissimo quotidiano.
Eppure, c’è un sentire universale che parla di diritto alla salute per tutti, nessuno escluso. Secondo questo modo di procedere il diritto alla salute è una delle forme fondamentali in cui si esprime il diritto all’uguaglianza e per questo dovrebbe essere interesse comune promuovere e difendere sistemi sanitari efficienti per la garanzia di un comune benessere. Un sistema fatto di principi equilibrati, di una buona conoscenza dei problemi della salute e quindi della prevenzione. La salute è un diritto sancito dalle costituzioni di molti Paesi ma i dati di mortalità dimostrano che esiste uno scarto tra proclamazione d’intenti e attuazione e mentre cresce la consapevolezza della salute come diritto siamo di fronte ad una crescente logica di mercato che esclude milioni di persone cittadini dalle prestazioni sanitarie. Secondo il diritto internazionale gli Stati hanno l’obbligo di garantire le condizioni di salute migliori possibili per l’individuo.
Ma cosa è cambiato con la pandemia? Per Walter Ricciardi, ordinario di igiene generale e applicata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e consigliere scientifico del ministro della Salute per la pandemia da coronavirus, «si è cominciato a capire che la salute è globale e che non basta garantire buone condizioni a livello nazionale o regionale o locale, ma che bisogna lavorare tutti insieme in modo coordinato per far sì che i determinanti di salute prevalgano su quelli di malattia. Dire che nessuno è sicuro fino a quando tutti siamo sicuri non è uno slogan, è la semplice e ancora incompresa verità».
Gli obblighi degli Stati in materia di salute non sono sempre chiari. Non si rischia di lasciare un margine di discrezione pericoloso?
Certamente, e questo è particolarmente chiaro con la pandemia. Che senso ha per un Paese fare tutti gli sforzi per contenere l’epidemia se altri Paesi non fanno lo stesso e, consentendo ai propri cittadini di viaggiare e girare il mondo, mantengono alta la circolazione del virus? Proprio per questo, dopo una lunga discussione, tutti i Paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno accettato di far partire un negoziato per un Trattato pandemico globale che consenta decisioni più coordinate e, soprattutto, vincolanti. Non sarà facile e il percorso finirà, nel migliore dei casi, nel 2024, ma almeno è stato avviato.
Disponibilità, accessibilità, accettabilità e qualità dei beni e servizi sanitari sono i capisaldi del diritto alla salute. Quali sono, secondo lei, i progetti su cui puntare per potenziarli?
La garanzia alla copertura sanitaria universale per tutta la popolazione mondiale. Oggi sono ancora miliardi i cittadini che non ce l’hanno. Significa garantire a tutti un livello minimo essenziale di servizi sanitari, sia preventivi che diagnostici e terapeutici. L’Organizzazione mondiale della sanità due anni fa ha varato un programma per far sì che questo si verifichi con un incremento di almeno un miliardo di persone all’anno nei prossimi anni, ma siamo molto in ritardo sull’obiettivo e la pandemia ha causato ulteriori ritardi. L’Unione europea ha viceversa varato investimenti e programmi importanti per ridurre le diseguaglianze nell’accesso e nella qualità dei servizi, ma è l’eccezione che conferma la regola.
Il diritto alla salute presuppone anche un ulteriore obbligo: la cooperazione. Come possiamo definire il rapporto degli Stati con l’Oms?
L’Oms è costituita da Paesi membri che la finanziano in modo totalmente inadeguato con contributi scarsi e mirati che sono del tutto insufficienti a fronteggiare le sfide contemporanee. Il suo ruolo va allargato e il finanziamento va potenziato, ma su questo non c’è ancora un accordo generale, certamente l’eventuale varo di un Trattato pandemico globale potrebbe cambiare radicalmente le carte in tavola.
Nel 1993 la Banca mondiale ha affermato che investire nella sanità per un Paese in via di sviluppo rappresenta una grande possibilità di crescita economica. Quanta strada è stata percorsa in 28 anni?
Molta, ma non è ancora sufficiente. Gli investimenti in sanità sono quelli a più grande ritorno, non solo in termini sanitari, ma anche economici, però in tutta la fase dell’austerity, dal 2007 al 2019, molti Paesi, Italia inclusa, anziché investire hanno effettuato tagli importanti che hanno compromesso l’accesso e la qualità dei servizi. Ora si apre una nuova fase in cui in tutto il mondo si è generata un’inversione di tendenza. In particolare in Europa, con il Programma Next Generation eu e con i Piani nazionali di ripresa e resilienza, gli investimenti in sanità saranno rilevanti. In Italia saranno dedicati a migliorare la “sanità di prossimità” e la transizione digitale.