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La sfida di Tobia l’aggiustatore

Non so a voi, ma a me è capitato di sentire un ragazzino chiedere al vecchio che si lamentava di quel che vedeva corrergli intorno – auto sfreccianti, tram pendolanti, pedoni scalmanati, biciclette forsennate, tavole viaggianti, metropolitane invincibilmente rumoreggianti e quant’altro vi viene in mente -, nella maniera più semplice e diretta: “Ma tu, come eri quando avevi la mia età?”. Non ho sentito una risposta diretta, solo un mugugno, per dire “eravamo un popolo che s’arrangiava muovendosi a piedi, aggiustando i buchi dei calzini e mettendo toppe alle brache di tela, mangiando spesso “pane sordo”, cioè senza niente che lo accompagnasse (mia zia lo raccomandava invitandomi a morderlo una volta di qua e un’altra di là, così, per vedere se il sapore cambiava), facendo di necessità virtù, affollando la stalla d’inverno e l’aia d’estate, cantando la vita che ogni giorno tesseva la sua trama, ascoltando le campane della chiesa che erano buone per invitare alla Messa, ma anche per informare che qualcuno era morto o che, nel pertugio messo a disposizione dal Comune c’erano o il daziere (le tasse da versare allo Stato, anche allora, erano una costante ineludibile), oppure il dottore (ammalarsi era al pari delle tasse un evidente evenienza). Meglio o peggio eravamo un popolo che non avendo tanto si accontentava del poco e che quel poco lo centellinava, aggiustava, riaggiustava, rimetteva in sesto… Tanto per dire e riassumere con un esempio: il tubolare della bicicletta (la cosiddetta camera d’aria che gonfiata consentiva al copertone, sempre di lunga data e durata, di irrigidirsi in modo da consentire di affrontare pedalando distanze illimitate) in caso di foratura, veniva aggiustato e quando era giunto al termine della sua onorata carriera, opportunamente mantenuto per ricavarne pezze da incollare con mastice sui futuri buchi che un sasso o un chiodo arrugginito avrebbero arrecato alla “camera d’aria” appena sostituita. Insomma, non si buttava via niente e tutto poteva e doveva essere riutilizzato.

Così ieri. Adesso, al grido di “tanto non vale la pena, soprattutto perché costa meno acquistare ex novo che riparare quel che è soltanto un ex”, basta un clic per ricevere a casa, depositato sull’uscio da un giovanotto che si guadagna da vivere consegnando un pacco in più della media imposta dall’algoritmo aziendale, l’alternativa a ciò che si è rotto-guastato-rovinato-alterato e quindi diventato impresentabile e inutilizzabile. Siamo nel futuro, cioè dove tutto passa e trapassa alla velocità della luce. Però, questo futuro, non è ancora riuscito a scalzare dal suo piccolo-grande laboratorio-officina il mio amico Tobia, maestro aggiustatore di qualunque oggetto che abbia avuto ventura di sfuggire alla moderna ma per niente intelligente legge dell’usa e getta.

Leggo che nella favolosa California vivono e prosperano giovanotti che senza neppure conoscerlo stanno seguendo gli insegnamenti di Tobia. Due di questi novelli Tobia, fedeli al motto dell’Università che li ha formati – il sempre caro e utile “impara facendo” -, hanno avviato un’attività che aggiustando l’aggiustabile li sta rendendo sempre più felici (e ricchi). L’anno scorso la loro società – la cui missione è insegnare ad aggiustare qualsiasi cosa – ha aiutato quasi 100milioni di persone a riparare un apparecchio. E così facendo, oltre che fatturare qualche decina di milioni di dollari grazie alle vendite online dei pezzi di ricambio, ha dato forza a un movimento che sta prendendo sempre più piede, “quello – come ha scritto Giorgio Rancilio – di coloro che sono stufi di sprecare a causa di un sistema che tende a farci cambiare gli oggetti (soprattutto elettronici ma non solo) appena hanno anche solo un piccolo guasto”.

Vista da qui sembra una piccola cosa, una goccia nel mare. “Ma dallo scorso primo gennaio – aggiunge Rancilio – qualcosa di importante si sta muovendo anche in Europa. La Francia, primo Paese al mondo, ha varato una legge per combattere gli sprechi e l’obsolescenza programmata («è una strategia volta a definire il ciclo vitale di un prodotto in modo da limitarne la durata a un periodo prefissato») e da allora obbliga le aziende a indicare il «grado di riparabilità» dei loro prodotti”. Verrebbe da pensare che se il resto d’Europa la seguisse, nel giro di pochi anni potremmo assistere ad una vera rivoluzione. “Al fatto, cioè, che la facilità o meno di riparare un oggetto diventasse una leva al suo acquisto, dando così sempre più spazio alla consapevolezza degli acquirenti e all’arrivo sui mercati di oggetti più semplici da riparare e dalle vite più lunghe. Dobbiamo solo volerlo: innanzitutto la politica e poi noi acquirenti. Perché se è vero che è appagante avere tra le mani l’ultima novità elettronica è altrettanto se non più esaltante scoprire che possiamo imparare a ripararla o a farla riparare a prezzi modici. Ne guadagnerebbe il nostro portafoglio ma anche e soprattutto l’ambiente. In fondo, la «rivoluzione verde» passa anche da queste cose”.

E, dico io, dalla riscoperta dei tanti Tobia che nei loro piccoli-grandi laboratori nascosti tra le pieghe della città o relegati nei casermoni delle periferie, prendono ciò che è rotto, lo aggiustano e lo riconsegnano – accontentandosi di un piccolo quanto doveroso compenso – alla loro funzione originale. Se interessa, una bambola aggiustata dal mio amico Tobia, alla fiera delle vanità e delle utilità, ha ottenuto il premio riservato alla “miglior bambola aggiustata”.

Se quel che avete letto non vi convince, peggio per voi. Infatti, è tutto vero. Tanto vero da preoccupare chi arricchendosi col nuovo riduce a brandelli tutto ciò che è vecchio.

LUCIANO COSTA

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