Otto anni fa, il 3 agosto 2014, la minoranza etno-religiosa del Sinjar, nell’Iraq nord-orientale, fu massacrata dal Daesh: un genocidio che causò 250mila sfollati, almeno 5.000 morti, 6.700 donne e bambini schiavizzati, 80 fosse comuni scoperte e 2800 persone scomparse o ancora prigioniere dei miliziani. Nadia Murad, la ragazza yazida Premio Nobel per la Pace 2018 e diventata simbolo della lotta contro le violenze contro i più fragili nei conflitti, una volta l’ha spiegato con queste parole: «Il fatto che non se ne parli o non sia scritto sui giornali, non vuol dire che quella guerra o quella tragedia non esista». E gli yazidi, la minoranza etno-religiosa che il 3 agosto 2014 fu massacrata dalla furia fanatica del Daesh per la sua fede, ha come primo bisogno quello di non farsi dimenticare. Non dimenticare, per impedire che altri fatti simili si ripetano. Eppure, quella tragedia non ha riscontri nella memoria collettiva. Anche l’anniversario è passato senza un gesto, una parola, una preghiera. Ieri i media si sono occupati di altre cose e non c’è stato spazio per gli yazidi, un popolo vittima della violenza. Succede spesso che la memoria di fatti anche gravi sia offuscata dal cosiddetto “altro”: qui la crisi politica e le vacanze, appena più in là il clima impazzito, le code per attraversare la Manica, le adesioni alla Nato di Finlandia e Norvegia, la Russia bifacciale di Putin – paese normale a Mosca e dintorni, ma paese in guerra appena fuori le mura, con morti e distruzioni di cui rendere conto – l’Ucraina assalita e martoriata dalla Russia, la nave che da Odessa viaggia col suo carico di mais che dice al mondo come il cibo possa diventare elemento universale di pace e concordia… Ma nello scacchiere militare del Sinjar e della piana di Ninive, traffici di uomini, rifornimenti e interessi riguardando ancora migliaia di sfollati senza casa e senza patria. Qui, da settimane le proteste yazide nei villaggi sono per chiedere un ruolo diretto nell’amministrazione dell’area e la sola presenza delle forze di polizia di Baghdad e dell’Onu.
In una nota di commento all’anniversario ho letto che “è come se milioni di siriani vivessero in un eterno dietro le quinte della storia. In fondo quel che avviene nella “guerra dopo la guerra” – svanite le fanfare di accordi diplomatici e successi politici da sbandierare – è negli anni il migliore dei “regolamenti dei conti”: spartizione in aree di interesse e proseguimento della guerra per procura fra i vincitori in chiave economica. L’avvicinarsi dell’ottavo anniversario del genocidio degli yazidi, come della fuga in Iraq dei cristiani siro-cattolici e caldei dalla Piana di Ninive, segna solo l’inerzia del passare del tempo. Lo stesso avviene in Siria nell’ultima provincia ribelle di Idlib, ricettacolo di tutte le opposizioni al regime di Damasco, senza che l’esercito siriano riesca a raggiungere i suoi obiettivi che vanno a contrastare quelli della Turchia. Ed è proprio questo gioco delle alleanze fra vincitori più o meno certi che rende palese chi siano i veri perdenti”.
Il segnale è chiaro: nessun piano di pace scritto dalle trattative delle Nazioni Unite a Ginevra per la Siria e i Paesi dell’area avrà mai gambe e sostanza senza il benestare, e un concomitante concorso di interessi, delle tre capitali che hanno in pugno quest’area del Medio Oriente. Il pur comprensibile tentativo di Biden di un “grande reset” delle relazioni internazionali in Medio Oriente, è giunto dopo gli anni del disimpegno di Donald Trump da tutta l’area e con risultati per la Casa Bianca ancora molto incerti. L’obiettivo di Biden di unire, sulla scia degli Accordi di Abramo, Israele e Arabia Saudita, capofila delle monarchie sunnite del Golfo, lascia un campo aperto nel profondo Medio Oriente sciita. Secondo l’estensore della nota di memoria del genocidio yazida “si tratta di un vuoto geopolitico, in realtà già da tempo riempito da altri attori. Dopo il vertice di Teheran di metà luglio, è evidente la saldatura della mezzaluna sciita con la politica di potenza del Cremlino e con la Turchia – terzo incomodo – a fare da arbitro in una triangolazione di interessi all’apparenza inconciliabili. Un membro della Nato, la Turchia appunto, capace di fare affari con l’Iran sospettato da oltre un decennio di ambizioni da potenza nucleare; la stessa Turchia che ospita il più grande numero di profughi al mondo che si sintonizza con l’asse Teheran-Mosca che ha fatto della Siria una intera nazione di sfollati e profughi”.
Sta nascendo il nuovo Medio-Oriente? Forse sì. Mate è palesemente fatto di accordi fra Mosca e Teheran per investimenti pari a 40 miliardi di dollari, definiti il «più grande investimento nella storia dell’industria petrolifera iraniana» mentre Ankara e Teheran hanno concordato di estendere per altri 25 anni il contratto di forniture di gas. Il principio dell’inviolabilità territoriale della Siria è stato solennemente sancito in Iran senza che nessun rappresentante di Damasco fosse presente. Secondo autorevoli fonti “l’obiettivo dei leader della nuova troika che guida il profondo Medio Oriente è la lotta al terrorismo: una pax mediorientale funzionale a sostenere il progetto egemonico di Putin in Ucraina e le mire neo ottomane di Erdogan”.
Tutto, ancora una volta, sulle spalle di siriani e yazidi, ormai dimenticati. Se tra le mille preoccupazioni che assillano il quotidiano resta un varco, per favore usiamolo per fare memoria di un popolo che guarda ad altri popoli e per ciascuno chiede la pace e non la guerra.
LUCIANO COSTA